venerdì 31 ottobre 2025

La stretta di mano del perdente: Trump festeggia, Xi incassa

Il solito Donald Trump lo ha definito “il più grande accordo commerciale della storia”, “una vittoria straordinaria per l’America” e, naturalmente, “un capolavoro negoziale come nessuno aveva mai saputo fare prima”. Con la solita enfasi da televendita, ha raccontato al suo pubblico che la Cina “ha finalmente capitolato”, “ha riconosciuto la nostra forza” e “ha accettato di rispettare l’America”.

Peccato che, osservando bene le carte — e soprattutto i volti — la scena fosse ben diversa. Alla stretta di mano di rito, Xi Jinping non sorrideva granché: sguardo fisso, espressione imperscrutabile, la calma di chi sa esattamente chi ha davvero vinto. Un po’ come un maestro di scacchi che lascia al dilettante l’onore della stretta finale, sapendo che la partita era decisa da dieci mosse.

Trump, invece, gongolava, agitava le mani, proclamava il trionfo davanti ai flash. E mentre a Washington si applaudiva lo “storico successo americano”, a Pechino si contavano i vantaggi strategici, ben più solidi dei tweet. In fondo, Trump aveva ragione su un punto: l’accordo è davvero storico — solo che passerà alla storia come l’ennesimo autogol travestito da vittoria.

giovedì 30 ottobre 2025

Quando la «burocrazia» diventa alibi: la figuraccia del Governo sul ponte sullo Stretto

Oggi la Corte dei Conti ha fatto ciò che tutti i cittadini che non sono disposti a farsi prendere in giro si aspettavano: ha rifiutato il visto di legittimità alla delibera del CIPESS n. 41/2025 relativa al progetto del ponte sullo Stretto di Messina.  

Non si tratta di un semplice ritardo o di una quisquilia procedurale: la Corte solleva dubbi gravi su costi, iter, trasparenza e conformità normativa.  

Ebbene, chi governa – in primo luogo la premier Giorgia Meloni – preferisce bollare tutto come “burocrazia” o “ingerenza” di giudici che rallenterebbero la realizzazione del grande sogno infrastrutturale. Ma questa è la classica mistificazione della realtà: non è la burocrazia a essere l’ostacolo, bensì l’operazione stessa – così come è condotta – ad essere inadeguata, rischiosa e ideologicamente viziata.

Le ragioni della critica

  1. Non è solo un ritardo tecnico – La Corte non ha chiesto informazioni di routine: ha sollevato questioni su stime di traffico, modalità di scelta dei consulenti, coerenza economica dei costi di progetto.  
  2. Non è un capriccio dei magistrati contabili – In un paese normale controlli come quelli della Corte dei Conti servono a garantire che le opere pubbliche siano effettivamente utili, efficienti e rispettose delle leggi. Qui, tali controlli fanno emergere che il dossier potrebbe non reggere sotto il profilo giuridico, tecnico e finanziario.  
  3. La retorica di “burocrazia” serve a nascondere problemi ben più seri – Se davvero l’ostacolo fosse la lentezza di qualche ufficio, basta snellire i passaggi e far continuare l’iter. Invece, ci troviamo davanti a un via libera annunciato, a una delibera definita strategica, ma che non supera i controlli minimi di legittimità. È evidente che qualcosa non torna.
  4. Il discorso pubblico è fuorviante – Quando la premier parla di “invasione della giurisdizione”, sta tentando, come suo solito, di spostare l’attenzione dal merito al contenzioso istituzionale. Ma l’argomento non è “chi decide”, bensì “come si decide e perché”.
  5. Rischio concreto di spreco pubblico e di malaffare – Un’opera del valore stimato di oltre 13 miliardi di euro che non risponde con chiarezza a domande fondamentali (tra cui: chi pagherà, con quali ritorni, quali garanzie ambientali e sismiche) rischia di diventare un buco nero per la finanza pubblica e un’occasione persa per il Sud.

Perché non basta dire “facciamolo subito”

  • Per un’opera di queste dimensioni, l‘affermazione “serve sviluppo” non è un lasciapassare: serve pianificazione credibile, dati certi, gara trasparente.
  • Chiamare “burocrazia” ciò che invece è controllo significa delegittimare il principio per cui ogni euro pubblico deve essere giustificato.
  • Il Sud non si rialza con la propaganda, ma con infrastrutture ben integrate, manutenzione costante, logistica funzionante: e non con un progetto monolitico che sembra concepito più per effetto mediatico che per utilità concreta.

La decisione della Corte dei Conti è una spia rossa – non un ostacolo da aggirare, bensì un campanello d’allarme. Se il governo insiste nel liquidare come “burocrazia” ciò che è invece controllo di legittimità e merito vuol dire che non ha voglia di rendere conto, ma solo di “fare ciò che si è promesso”. E quando si promettono ponti colmare la distanza tra Sicilia e Calabria, non basta lo slideshow della propaganda: servono numeri, garanzie, e trasparenza.

Altrimenti, quel ponte rischia di rimanere non solo inutile, ma dannoso: per le risorse spese, per le opportunità mancate, per la fiducia nelle istituzioni.

martedì 28 ottobre 2025

Il business della rabbia sui social

C’è un filo nero che attraversa i social, e Facebook più di tutti: la violenza verbale. Ogni giorno assistiamo a una marea di insulti, sarcasmo velenoso, indignazione gridata. È come se il dialogo fosse diventato impossibile, sostituito da un costante bisogno di aggredire, di affermarsi distruggendo l’altro. Ma non è solo un problema di maleducazione collettiva: è un meccanismo, un ingranaggio ben oliato.

I social si nutrono di emozioni forti — paura, rabbia, disprezzo — perché sono quelle che generano traffico, clic, commenti, condivisioni. Un post rabbioso fa discutere, divide, accende gli animi: e più il tono sale, più cresce la visibilità, l’engagement, il tempo speso sulla piattaforma. È una spirale perversa in cui la negatività diventa moneta sonante.

La rabbia, insomma, genera profitto. E mentre noi crediamo di sfogarci, di dire la nostra, qualcun altro misura il successo in grafici di interazione e in cifre pubblicitarie. I social, nati come luoghi d’incontro e di condivisione, si sono trasformati in amplificatori di rancore, dove la voce più moderata scompare, e l’eco più urlata domina.

Forse il primo passo per invertire la rotta è accorgersene: ricordare che ogni volta che reagiamo con rabbia, c’è qualcuno che ci guadagna. E che la calma, oggi, è la vera forma di resistenza.


domenica 26 ottobre 2025

Trump contro Reagan

L’ennesima farsa trumpiana si arricchisce di un nuovo capitolo grottesco. Dopo aver reagito con rabbia e insulti a un vecchio video in cui Ronald Reagan — un vero presidente repubblicano, dotato di visione e decenza — metteva in guardia contro i dazi, il "presidente pazzo" Trump ha deciso di superarsi: bloccare i negoziati commerciali con il Canada. Un gesto folle, autolesionista e totalmente privo di logica economica, che danneggerà prima di tutto gli Stati Uniti.

È il solito copione: l’ego smisurato al posto del pensiero, la propaganda al posto della politica, l’arroganza che soppianta ogni competenza. Vedere un presidente degli Stati Uniti prendersela con Reagan e, nello stesso tempo, sabotare i rapporti con uno dei più solidi alleati americani è insieme comico e tragico. 

Ma più di tutto è rivelatore: Trump non ha ideali, non ha coerenza, non ha neppure la minima cognizione storica. Ha solo sé stesso — e la sua follia narcisistica, ormai fuori controllo.

sabato 25 ottobre 2025

A letto con il nemico, un film purtroppo ancora attuale

A letto con il nemico (1991) è un tipico B movie hollywoodiano, costruito con ingredienti collaudati: suspense, fuga, identità segrete e un cattivo ossessivo. Eppure, a più di trent’anni dall’uscita, il film resta tristemente attuale per il tema della violenza domestica e del controllo maschile sulla donna. 

A parte qualche evidente buco nella sceneggiatura e una certa ingenuità di fondo, il film mantiene una sua tensione e un ritmo ancora efficace. Gran parte del merito va alla giovane Julia Roberts, affascinante e credibile nel ruolo della moglie che tenta di riconquistare la libertà, confermando già allora il suo magnetismo e il talento che l’avrebbero resa una star.



venerdì 24 ottobre 2025

Un paese reso ignorante dalla sua politica

L’incultura dilagante nel nostro Paese non è un fenomeno improvviso: è il frutto di anni di disinteresse, di impoverimento dell’istruzione, di svuotamento del valore della conoscenza. 

In un tempo in cui tutto deve essere “facile”, “leggero”, “immediato”, leggere un libro, andare a teatro o visitare un museo sono diventati gesti quasi rivoluzionari. E comunque considerati noiosi e superflui da una classe politica inadeguata, profondamente ignorante, ma al tempo stesso arrogante e compiaciuta della propria insipienza. 

E il Governo, invece di contrastare questa deriva, sembra assecondarla: taglia fondi al cinema, ignora scuole e biblioteche, riduce la cultura a spettacolo pacchiano, a becero consumo. Ma un Paese che non investe nel pensiero critico e nella bellezza è un Paese che smette di crescere — e alla fine, di capire sé stesso.

«Il pensiero come l’oceano / non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare»: così cantava il grande Lucio Dalla in Come è profondo il mare. E aveva ragione. Il pensiero fa paura, soprattutto a chi teme le domande, a chi preferisce un popolo distratto e docile, invece che critico e consapevole.

Oggi in Italia l’incultura avanza, non per caso ma per abbandono. Scuola, arte, libri, musica, ricerca — tutto ciò che alimenta la mente viene trattato come ultroneo. Eppure senza pensiero, senza cultura, non c’è libertà. Forse è proprio questo che spaventa di più chi ci (mal) governa.



giovedì 23 ottobre 2025

John Carter, un film da (ri)scoprire

Nonostante la fama ingiusta che lo ha perseguitato, è tempo di rendere giustizia a John Carter. Questo film del 2012 è, a tutti gli effetti, un'opera di grande intrattenimento, un'avventura fantascientifica pulpy e divertente che merita di essere riscoperta e apprezzata per i suoi innegabili meriti.

La Disney non ha badato a spese, e il risultato è un kolossal che fa pieno sfoggio delle sue ambizioni epiche. Dimenticate le critiche sul flop al botteghino: quello che rimane è una produzione sontuosa.

Il film è ben girato dal regista Andrew Stanton (premio Oscar per l'animazione, qui al suo debutto live-action), che orchestra con maestria scene d'azione mozzafiato e combattimenti coreografici. Il ritmo è incalzante e non lascia spazio alla noia, catapultando lo spettatore in un'epopea spaziale dal sapore antico, ma con la potenza tecnica del cinema moderno.

Il grande dispiego di effetti speciali e CGI è uno dei suoi punti di forza più evidenti. Il pianeta Barsoom (Marte) è ricreato con un world-building affascinante e dettagliato: dalle città volanti alle vaste distese desertiche, fino alle creature aliene come i Tarki a quattro braccia, tutto è reso con una qualità visiva sorprendente e immersiva. Ancora oggi, a distanza di anni, gli effetti reggono benissimo il confronto, dimostrando una cura artigianale degna dei migliori blockbuster.

In sintesi, John Carter è un'avventura sci-fi/fantasy di prim'ordine, fedele allo spirito della classica letteratura di Edgar Rice Burroughs. È un film che non si prende troppo sul serio, offrendo puro e sano intrattenimento con un cuore avventuroso. Se non lo avete ancora visto, o se lo avete ingiustamente liquidato, dategli una possibilità: potreste ritrovarvi piacevolmente sorpresi.



mercoledì 22 ottobre 2025

L’inferno degli accessi digitali: più che sicurezza, tortura psicologica

Ma davvero qualcuno crede che complicare l’accesso a un sito lo renda più sicuro? Ogni volta è una maratona digitale: password con lettere maiuscole, minuscole, numeri, geroglifici egizi, doppio codice via mail, riconoscimento facciale, verifica tramite DNA e infine il test più crudele — “clicca su tutte le immagini con i semafori” (che, ovviamente, non esistono).

Alla fine, più che proteggere i nostri dati, sembra vogliano proteggerci dall’entrare. E il risultato è che l’utente medio, esasperato, rinuncia del tutto. 

Missione compiuta, cari paladini della “user experience”.


martedì 21 ottobre 2025

Il letame di Trump metafora della sua presidenza

Il disgustoso video pubblicato da Trump, in cui si diverte a riversare letame sui manifestanti No Kings, è stato descritto da molti come l’ennesima parodia di un presidente che disprezza metà America. Ma questa lettura a mio avviso è riduttiva: la verità è ancora più amara.

Non è solo metà del paese a essere oggetto del suo disprezzo, ma tutta l’America. E non si ferma qui: con la sua ostentata volgarità e il suo comportamento da bullo, Trump disprezza anche il resto del mondo, riducendo la politica a uno spettacolo disgustoso e degradante.

Guardando quel video, resta la sensazione di un’epoca in cui i valori pubblici vengono calpestati, in cui la decenza e il rispetto sembrano concetti antiquati, e in cui chi dovrebbe guidare finisce per ridicolizzare tutto ciò che rappresenta la responsabilità e la dignità.

Tempi davvero disgustosi.

Tempi amari: Nicolas Sarkozy in carcere

Vedere un ex presidente, come Nicolas Sarkozy, varcare la soglia di un carcere non suscita sollievo né soddisfazione. È un’immagine che pesa, che lascia un senso di amarezza profonda.

Condannato per corruzione e traffico d’influenze, Sarkozy paga il prezzo di un sistema che ha confuso l’autorità con l’arbitrio, il potere con l’impunità.

Non importa da che parte si stia, né quali convinzioni politiche si abbiano: ciò che resta è il segno di un’epoca fragile, smarrita, in cui la fiducia nelle istituzioni e nei valori civili sembra sgretolarsi giorno dopo giorno.

Ci abituiamo troppo in fretta all’eccezione, allo scandalo, al gesto estremo. Ma dietro la cronaca resta la sensazione che qualcosa di essenziale si sia spezzato: il rispetto per le regole, per la parola data, per la misura del potere e della responsabilità.

Sono tempi amari, e il carcere di un ex capo di Stato ne è soltanto il simbolo più doloroso.

lunedì 20 ottobre 2025

Quando la nuvola si sgonfia: AWS in tilt (e le previsioni che si avverano)

In un mio recente post avevo messo in guardia contro la fiducia cieca nelle grandi infrastrutture cloud, troppo spesso considerate infallibili. Avevo scritto che, per quanto gigantesche e sofisticate, restano pur sempre macchine — e come tali, destinate prima o poi a incepparsi. Ebbene, oggi quella previsione ha trovato conferma.

Il colosso Amazon Web Services, cuore pulsante di una parte enorme di Internet, è crollato per ore causando disservizi in tutto il mondo: da Snapchat a Fortnite, fino ad Alexa, al negozio on line di Amazon e a numerose piattaforme aziendali. La nube si è improvvisamente fatta temporale, e milioni di utenti si sono trovati tagliati fuori dai propri servizi digitali, come se qualcuno avesse spento l’interruttore del web.

L’episodio dimostra quanto sia fragile il castello di certezze su cui si regge la nostra vita connessa. Abbiamo affidato tutto — lavoro, comunicazioni, intrattenimento — a pochi giganti tecnologici, convinti che “loro” non possano cadere. Ma oggi, con AWS in ginocchio, scopriamo che basta un guasto per paralizzare intere porzioni della rete globale.

Non c’è bisogno di essere ingegneri per capire la lezione: la dipendenza da un unico colosso è un rischio, e la “nuvola” non è un luogo magico dove tutto funziona per sempre. È fatta di server, cavi, persone, errori. Esattamente come il mondo reale da cui pretendiamo di fuggire.

Il crollo di oggi non è solo un blackout tecnologico, ma anche un segnale simbolico: ci ricorda che la modernità digitale non è sinonimo di invulnerabilità.

Kingpin, Trump e il potere dei mostri

Nella serie Marvel Daredevil - Rinascita (peraltro eccellente, ne consiglio caldamente la visione), distribuita da Disney Plus, l’elezione di Wilson Fisk, alias il re del crimine Kingpin, a sindaco di New York è un colpo di genio narrativo, ma anche una sinistra metafora del nostro tempo. Un criminale di lungo corso, spietato e manipolatore, che conquista il potere politico appellandosi alla paura, alla rabbia e al desiderio di "ordine” dei cittadini.

Impossibile non pensare alla sciagurata rielezione di Donald Trump: un pregiudicato che, nonostante scandali, menzogne e processi, riesce a convincere milioni di elettori di essere la vittima di un complotto. Kingpin e Trump condividono lo stesso talento per la manipolazione, la stessa spavalderia e arroganza da "uomo forte”, la stessa capacità di piegare la realtà ai propri interessi.

La finzione dei fumetti, ancora una volta, finisce per rivelarsi più vera della realtà.




domenica 19 ottobre 2025

Le manifestazioni No Kings oscurate su TeleMeloni

© Getty Images

Incredibile, ma ormai non sorprende neanche più, il pressoché assoluto silenzio dei vari Tg Rai sulle imponenti manifestazioni — No Kings  che ieri hanno sferzato gli Stati Uniti. Milioni di persone in piazza, un evento di portata storica, completamente ignorato dal servizio pubblico.

Nell’era di TeleMeloni, la selezione delle notizie è diventata un esercizio di censura: ciò che non si adatta alla narrazione del potere semplicemente non esiste. Anche in questo la nostra vendicativa e rancorosa premier ha ben assimilato la pericolosa lezione trumpiana.



MTV chiude: la fine di un’era

Il 31 dicembre 2025 MTV spegnerà i suoi canali musicali nel Regno Unito e in Irlanda — MTV Music, MTV 80s, MTV 90s, Club MTV e MTV Live — lasciando in vita solo il canale principale, ormai dedicato quasi esclusivamente a reality e intrattenimento.

È davvero la fine di un’epoca. Per chi è cresciuto negli anni ’80 e ’90, MTV era la finestra sul mondo della musica: i video in anteprima, i VJ, i programmi iconici, la sensazione di far parte di una generazione che scopriva la musica anche con gli occhi. E non dimentichiamo che fu anche grazie a MTV che si diffuse la musica di artisti come i Police, Michael Jackson, gli Wham di George Michael, i Dire Straits (che pure dedicarono un video pungente all'emittente).







In Italia, il suo arrivo segnò anche, di lì a poco, la fine di Mister Fantasy, la storica e seguitissima trasmissione condotta da Carlo Massarini, che per prima aveva portato in tv l’estetica del videoclip e un nuovo modo di raccontare la musica.


Oggi, con YouTube, TikTok e lo streaming, quel rito collettivo è diventato un’esperienza solitaria e algoritmica. In realtà MTV non sparisce del tutto, ma cambia pelle: da canale musicale a marchio pop.


Addio, Music Television. Ci mancherai come un ricordo, anzi un videoclip di quando eravamo ragazzi.


sabato 18 ottobre 2025

Andor, la seconda stagione

La seconda stagione di Andor conferma — e in molti momenti supera — la straordinaria qualità della prima. Rara avis nel panorama delle serie legate all’universo di Star Wars, Andor si distingue ancora una volta per la regia rigorosa e cinematografica, per la recitazione intensa e misurata e per una sceneggiatura che osa affrontare temi adulti, politici, profondamente umani.

La regia costruisce con studiata lentezza e precisione ogni scena, restituendo una tensione palpabile anche nei momenti di silenzio. Diego Luna regala un’interpretazione matura e malinconica, ma è l’intero cast — da Stellan Skarsgård a Denise Gough fino alla straordinaria Genevieve O’Reilly, che dona a Mon Mothma una profondità e una dignità tragica da grande teatro politico — a offrire prove di altissimo livello, lontane anni luce dal manierismo di tanta fantascienza seriale.



Sul piano tematico, Andor è più che mai una riflessione sul potere, sulla resistenza e sulla degenerazione dei sistemi autoritari. Non stupisce, dunque, che molti abbiano colto nel discorso pronunciato al Senato in uno degli episodi finali (riportato in calce a questo post) una velata ma inequivocabile critica all’attuale amministrazione Trump. Il paradosso, tuttavia, è che la serie è stata scritta prima dello sciagurato ritorno del losco figuro alla Casa Bianca: segno di quanto la scrittura sappia intercettare, con lucidità quasi profetica, le dinamiche universali del populismo e della manipolazione politica.


A rendere il tutto ancora più ammirevole è la precisione con cui la serie riesce a raccordare, senza alcun passo falso, tutte le sue vicende e i suoi personaggi con gli eventi che porteranno direttamente a Rogue One. È un lavoro di cesello narrativo che dà pieno senso all’intera epopea ribelle, chiudendo il cerchio con una coerenza e una cura dei dettagli raramente viste in un prequel.


Non sorprende, dunque, che Andor abbia trionfato ai recenti Emmy Awards 2025, conquistando ben cinque premi, tra cui quello più prestigioso per la miglior sceneggiatura di una serie drammatica, assegnato a Dan Gilroy per l’episodio “Welcome to the Rebellion”. Un riconoscimento meritatissimo che celebra la profondità dei dialoghi, la costruzione drammatica e la straordinaria capacità della serie di fondere introspezione psicologica e impegno politico.


Andor 2 non si limita a raccontare l’origine di una ribellione: racconta, con una forza morale e artistica rara, come nasce la coscienza di un popolo oppresso e quanto costa mantenerla viva. È, a suo modo, una delle opere più potenti e consapevoli della fantascienza contemporanea.

venerdì 17 ottobre 2025

Too Much Information

Nel 1981 i Police cantavano questo brano dal testo profetico: Too much information dall'album Ghost in the Machine. E ancora era di là da venire il sovraccarico informazionale scatenato da Internet nelle sue varie declinazioni: il Web, i social, gli aggregatori di notizie perlopiù negative...

Per chi volesse approfondire l'argomento, ne ciancio più diffusamente qui, sul blog magazine Libri e Parole.


Too Much Information

Too much information running through my brain
Too much information driving me insane
Too much information running through my brain
Too much information driving me insane

I've seen the whole world six times over
Sea of Japan to the Cliffs of Dover
I've seen the whole world six times over
Sea of Japan to the Cliffs of Dover

Overkill, overview
Over my dead body
Over me, over you
Over everybody

Too much information running through my brain
Too much information driving me insane
Too much information running through my brain
Too much information driving me insane
Too much information running through my brain
Too much information driving me insane
Too much information running through my brain
Too much information driving me insane

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I've seen the whole world six times over
Sea of Japan to the Cliffs of Dover
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Sea of Japan to the Cliffs of Dover

Overkill, overview
Over my dead body
Over me, over you
Over everybody

Too much information running through my brain
Too much information driving me insane
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(post aggiornato in data 19-10-25)

giovedì 16 ottobre 2025

La rivolta contro lo streaming

Il movimento Death to Spotify è nato come una forma di protesta collettiva da parte di artisti, etichette e ascoltatori contro il modello economico delle piattaforme streaming musicali che remunerano in modo insufficiente il lavoro creativo. L’idea è quella di mettere in luce gli squilibri nel rapporto tra che offre contenuti (i musicisti) e le piattaforme che li distribuiscono, chiedendo maggiore trasparenza, share più equi e alternative sostenibili al modello dominante.

Mi sembra un’iniziativa stimolante — e, sì, forse idealistica, ma spesso le utopie sono il motore del cambiamento. Sostenere un movimento come Death to Spotify significa porre all’attenzione le ingiustizie accumulate in anni di streaming dominato da algoritmi e grandi piattaforme, rivendicare il valore del diritto d’autore e mettere pressione affinché si evolvano le logiche contrattuali e distributive.

Ovviamente ci sono ostacoli concreti: servono unità tra artisti, adesione del pubblico e la capacità di proporre alternative praticabili. Ma anche aprire un dibattito è già un passo avanti. Se queste proteste riescono a stimolare riflessioni, mobilitare coscienze e spingere verso riforme (legali, contrattuali, tecnologiche), vanno viste come una mossa coraggiosa e necessaria.

Sono curioso di seguire gli sviluppi per capire se questo movimento riuscirà a tradursi in cambiamenti concreti per chi produce musica — perché, alla fine, il valore dell’arte non può continuare ad essere marginale rispetto ai numeri degli algoritmi.


mercoledì 15 ottobre 2025

Aspromonte – La terra degli ultimi

Film intenso e rigoroso, Aspromonte – La terra degli ultimi di Mimmo Calopresti (2019) racconta con forza e misura la lotta di una comunità dimenticata, sospesa tra miseria e dignità. 

La regia asciutta, priva di orpelli, restituisce la durezza del paesaggio e la fierezza dei personaggi, sostenuta da una fotografia scabra e suggestiva che cattura la luce aspra della Calabria come specchio dell’animo umano.

Le interpretazioni sono tutte di alto livello, ma spicca quella di Valeria Bruni Tedeschi, intensa e autentica, capace di dare voce e corpo alla fragilità e alla tenacia di una donna che non si arrende. Accanto a lei, un cast corale di grande efficacia contribuisce a rendere credibile e commovente il racconto di un Sud dimenticato ma vivo, fiero nella sua ostinata umanità.

martedì 14 ottobre 2025

Addio a Vera Ambra


Con grande dolore apprendo della scomparsa di Vera Ambra, anima viva della cultura catanese e nazionale. La Catania culturale perde oggi una figura di raro spessore, un faro per quanti, come me, hanno creduto nella forza della parola e dell'editoria indipendente.

Vera non è stata solo editrice: era scrittrice, poetessa, promotrice culturale, dotata di una sensibilità capace di trasformare visione e passione in progetti che parlavano al cuore delle persone. Nei tardi anni Novanta e nei primi anni Duemila, collaborò con l’emittente televisiva Antenna Uno Lentini, dove si distinse per impegno giornalistico e divulgazione culturale, lasciando un’impronta che molti ricordano con affetto.

È però con la fondazione dell’Associazione Culturale Akkuaria e la nascita di akkuaria.com, nei primi anni 2000, che Vera ha costruito il suo lascito più duraturo. Fu una delle prime realtà editoriali indipendenti online in Sicilia: un centro di produzione, diffusione e promozione culturale che, nel tempo, ha dato voce a centinaia di autori, organizzato eventi, concorsi, pubblicazioni, presentazioni, diventando un punto di riferimento per chi cerca una cultura libera e plurale.

Vera ha scritto dell’amore per la sua terra — Catania — rendendola viva, pulsante, riconoscibile, nei suoi libri e nelle sue iniziative. La sua capacità di promuovere gli altri, di far crescere un ponte tra autori e lettori, utilizzando tra l'altro in maniera pionieristica i nascenti social, l’ha resa figura amata e stimata nell'ambiente culturale siciliano ma non solo.

A livello personale, le sarò per sempre grato per avermi dato fiducia in un tempo in cui ogni incertezza poteva fermare un progetto. È grazie a lei, tra le altre cose, che molti anni fa la mia prima raccolta di racconti, Memorie a perdere, ha visto la luce quando nessuno sembrava credere in me. La sua azione — discreta, ma intensa — ha sostenuto non solo la mia voce, ma quella di tanti scrittori che altrimenti sarebbero rimasti in ombra.

Oggi perdiamo non solo una grande intellettuale, ma una custode di sogni e parole, una costruttrice di comunità. Ma Vera resta con noi: nei libri che ha scritto, nelle collane che ha curato, negli autori che ha creduto e sostenuto. La sua voce continuerà a risuonare fra le righe, nelle pagine, nelle vite che ha toccato.

Ciao Vera. Il tuo sguardo continuerà a guidarci.

lunedì 13 ottobre 2025

Un po’ del nostro tempo migliore: i Pooh “progressive”


Pubblicato ben 50 anni fa (1975), l'album Un po’ del nostro tempo migliore rappresenta uno dei vertici creativi dei primi Pooh, secondo forse solo a Parsifal, pubblicato 2 anni prima. Lontana dalle semplici, sia pur ben riuscite canzoni d’amore dei primi anni, la band abbraccia con convinzione il progressive rock, costruendo un album ambizioso e coerente, ricco di suite, cambi di tempo e arrangiamenti complessi. La qualità compositiva è alta: le armonie vocali, l’uso orchestrale dei sintetizzatori e la cura per i testi mostrano una consapevolezza musicale rara nel panorama italiano dell’epoca.

Eppure, accanto ai molti pregi, affiora anche una certa eccessiva solennità. L’album, curatissimo, sembra a tratti più interessato a stupire che a coinvolgere. Non a caso, parte del pubblico - quello più tradizionale, o dai gusti più semplici, se volete - del quartetto non mostrò di apprezzare troppo il disco.

Nonostante ciò, Un po’ del nostro tempo migliore resta un’opera fondamentale nella discografia dei Pooh: un coraggioso tentativo di insistere sulla strada del progressive e di dimostrare, una volta per tutte, che sapevano essere molto più di un gruppo pop di successo.

La doppia morte di Internet: il controllo e il collasso


La Rete, la spina dorsale della nostra civiltà, è sotto assedio. Non da una, ma da due minacce che, pur essendo diverse, convergono sulla stessa catastrofe: la fine di Internet come lo conosciamo.

La prima minaccia riguarda la sua libertà. Lo ha ribadito con forza Pavel Durov, fondatore di Telegram, parlando di un "tempo che sta finendo per salvare l'Internet libero". Per Durov, stiamo assistendo a un collasso ideologico: la grande promessa di scambio libero si sta tramutando nel "più potente strumento di controllo mai creato". Non si tratta di un guasto tecnico, ma di una resa morale, dove la sorveglianza e la censura, dal Regno Unito alla Germania, erodono l'anima stessa del web, trasformandolo in un panopticon digitale.

Ma c'è una seconda, terrificante possibilità, che ho prospettato in un mio recente post: il collasso fisico. Interruzione dei cavi sottomarini, un attacco cibernetico su vasta scala o un evento solare estremo potrebbero spegnere la luce della Rete. Qui il problema non è cosa facciamo online, ma se possiamo farlo. Questa crisi ci riporterebbe al medioevo digitale, paralizzando economia, sanità e logistica globale.

L'ironia del nostro tempo è proprio questa: potremmo fallire nel difendere la libertà della Rete, trasformandola in uno strumento tirannico (l'avvertimento di Durov); oppure potremmo lottare per la libertà, solo per vederla spazzata via da un cedimento strutturale (la disconnessione).

Oggi non basta che Internet "funzioni"; deve funzionare garantendo democrazia. La posta in gioco è doppia: rischiamo di perdere Internet sia nella sua essenza che nella sua esistenza.

sabato 11 ottobre 2025

“Vajont - La diga del disonore”: la tragedia raccontata con potenza visiva e intensità umana

Vajont - La diga del disonore (2001) è uno di quei film che riescono a fondere il grande spettacolo cinematografico con l’impegno civile, restituendo la dimensione umana di una tragedia annunciata senza rinunciare alla forza del racconto. 

Il ritmo del film è sostenuto, teso, con un crescendo narrativo che accompagna lo spettatore fino all’inevitabile disastro, ma senza mai scadere nel melodramma o nel sensazionalismo.

La regia costruisce una tensione costante, fatta di sguardi, silenzi e presagi. Le inquadrature, spesso sghembe e oblique, restituiscono alla perfezione l’instabilità di un mondo che sta per crollare: una scelta visiva coraggiosa e di grande effetto, che amplifica la sensazione di precarietà e destino imminente. Anche la fotografia gioca un ruolo fondamentale: luci livide, colori spenti e contrasti netti che evocano la montagna come presenza viva, minacciosa, quasi ostile.

Daniel Auteuil offre come sempre una prova d’attore di rara intensità, tratteggiando un personaggio complesso, diviso tra ambizione, spregiudicatezza e (tardivo) rimorso. Accanto a lui, tutto il cast brilla per autenticità e misura: interpretazioni credibili, mai sopra le righe, che rendono il dramma ancora più vicino e reale.

Il film si ispira alla vera tragedia del Vajont, avvenuta il 9 ottobre 1963, quando una frana precipitò nel bacino artificiale della diga, provocando un’onda gigantesca che distrusse interi paesi e causò quasi duemila vittime. Un disastro annunciato, frutto di errori, negligenze e silenzi colpevoli: il film lo racconta con rispetto, evitando la retorica, ma restituendo tutta la portata dell’orrore e della responsabilità umana.

Vajont non è solo un film storico o un racconto di catastrofe, ma una riflessione sul prezzo dell’arroganza e sull’indifferenza di fronte ai segnali del disastro. Un’opera di grande potenza visiva ed emotiva, capace di lasciare nello spettatore un segno profondo e di far rivivere una delle pagine più drammatiche della nostra storia recente.

venerdì 10 ottobre 2025

E se Internet crollasse?

Può sembrare impossibile, quasi inconcepibile, parlare di un eventuale crollo di Internet. La sua architettura è stata concepita per resistere a tutto: guerre, catastrofi naturali, blackout localizzati. Una rete distribuita, resiliente, capace di “autoripararsi” instradando i dati per vie alternative. In teoria, dunque, indistruttibile.

Eppure, proprio la complessità che ne garantisce la sopravvivenza potrebbe un giorno diventare la sua condanna. Basterebbe un intreccio di crisi — energetica, politica, tecnologica — per spezzare quella fragile armonia di server, cavi sottomarini, data center e reti di trasmissione che sorregge l’intero mondo digitale. Immaginiamo un collasso graduale, non un’esplosione improvvisa: siti che smettono di rispondere, piattaforme che vanno in tilt, servizi cloud che evaporano come nebbia.

Le conseguenze sarebbero enormi, ma non solo economiche o pratiche. Per milioni di persone, Internet è ormai una protesi mentale, un’estensione dell’identità. Un suo blackout non significherebbe soltanto perdere l’accesso all’informazione, ma anche una parte del proprio sé: i ricordi custoditi online, le tracce di relazioni, la memoria collettiva di un’intera epoca.

Ci scopriremmo improvvisamente soli, disconnessi non solo dal mondo ma da noi stessi. Forse, dopo il panico iniziale, torneremmo a guardarci negli occhi, a riscoprire la lentezza, il silenzio. Ma il prezzo psicologico del crollo di Internet sarebbe altissimo: un trauma collettivo, un lutto globale per qualcosa che, nel bene e nel male, aveva finito per diventare la nostra casa.

mercoledì 8 ottobre 2025

Emerson, Lake & Palmer: la magia del progressive

Ci sono gruppi che non si limitano a suonare: trasformano la musica in un’esperienza. Emerson, Lake & Palmer erano così — tre personalità enormi,  quasi debordanti, tre talenti che insieme crearono un suono che sembrava provenire da un altro pianeta.

Riascoltandoli oggi, si rimane colpiti da quanto fossero audaci e visionari: tastiere impazzite, orchestrazioni sinfoniche, batteria pirotecnica… eppure, nel cuore di tutto, c’era sempre la melodia. Merito fondamentalmente del contributo del bassista e chitarrista Greg Lake, voce celestiale proveniente dai King Crimson
Forse è per questo che il mio brano preferito di EL&P resta Lucky Man: una canzone semplice e perfetta, con la voce malinconica di Greg Lake e quell’assolo  pazzesco di Moog finale che ancora oggi fa venire i brividi (ascoltatelo in cuffia, per godere appieno dell’effetto stereo, con il suono che viaggia tra il canale destro e il sinistro).
È lì che si concentra tutta la loro magia: emozione e tecnica, poesia e sperimentazione.

Emerson, Lake & Palmer, alfieri del prog più barocco e pirotecnico, sapevano essere smisurati e teatrali, ma anche profondamente poetici. Lucky Man è la loro anima nuda: una ballata che parla di destino e fragilità, chiusa da un lampo di pura avanguardia. Ogni volta che la ascolto penso che nessuno, dopo di loro, ha più suonato così — con quella miscela di genio, arroganza e meraviglia.

Un piccolo miracolo degli anni ’70, che suona ancora oggi incredibilmente vivo: 🎶 “He had white horses, and ladies by the score…”



martedì 7 ottobre 2025

"1984" oggi: la profezia compiuta?

George Orwell con 1984 non scrisse solo un romanzo distopico: compose un manuale di autodifesa contro la menzogna di Stato. Il suo messaggio era chiaro: il totalitarismo non ha bisogno soltanto di violenza, ma di controllo sul linguaggio, sulla memoria e sulla realtà.

Oggi quella distopia, immaginata quasi 80 anni fa dal grande scrittore britannico, non è più soltanto un incubo letterario: è diventata una grammatica del potere moderno.

La riscrittura della realtà

Il potere, ci ricorda Orwell, non si accontenta di dominare il presente: vuole riscrivere il passato per controllare il futuro. Nel romanzo, ogni giorno gli impiegati del Ministero della Verità distruggono documenti, articoli e prove, sostituendoli con versioni più “corrette” della storia. Oggi non serve un Ministero: basta un ufficio stampa o un social network.

Putin ne ha fatto un’arte, manipolando la narrazione della storia russa e dell’Ucraina, fino a cancellare parole come “guerra” e “invasione” dal lessico pubblico. La propaganda statale, sostenuta da media asserviti e censura online, costruisce un mondo alternativo dove la Russia è vittima, non aggressore.

Allo stesso modo, Donald Trump ha portato all’estremo l’idea orwelliana del doublethink: la verità è ciò che il leader afferma, anche se smentita dai fatti. “Alternative facts”, “fake news”, “deep state”: slogan che funzionano come i “2 + 2 = 5” del romanzo, simboli di un mondo in cui la logica si piega alla volontà del capo.

E in Italia, la manipolazione assume forme più sottili. Non è la censura, ma la saturazione: si soffocano le voci critiche riempiendo lo spazio mediatico di propaganda, narrazione patriottica e autocelebrazione. Si sostituisce il confronto con lo slogan, il dubbio con la retorica, la complessità con la semplificazione. È un altro modo per riscrivere la realtà: non cancellandola, ma sommergendola.

Il linguaggio come arma

In 1984, il Partito crea la Neolingua per rendere impossibile il pensiero eretico: eliminando parole, si elimina la possibilità stessa di pensare idee pericolose.

Oggi la lingua continua a essere un campo di battaglia. Ogni potere, democratico o autoritario, plasma il linguaggio per legittimarsi: “operazione speciale”, “difesa dei confini”, “sovranità nazionale”, “politicamente corretto” — termini apparentemente neutri che diventano trappole semantiche.

Trump ha fatto del linguaggio la sua arma più potente: insulti, deformazioni, iperboli servono a distruggere la complessità e ridurre il mondo a slogan binari (“noi contro loro”). Putin usa la parola per costruire un mito imperiale, Meloni per evocare un’identità nazionale ferita da riscattare.

In tutti e tre i casi, il linguaggio non descrive più la realtà — la crea.

Il controllo attraverso la paura e la fedeltà

Orwell aveva intuito che il modo più efficace per mantenere il potere non è la forza, ma la paura. Il cittadino che teme di essere escluso, punito o ridicolizzato rinuncia spontaneamente al proprio spirito critico. È ciò che accade quando il dissenso viene ridotto a tradimento, quando la critica è bollata come odio, o quando l’opposizione politica viene delegittimata moralmente, non solo politicamente.

Putin mantiene il controllo grazie a un apparato repressivo e a una retorica di accerchiamento: l’Occidente è il nemico, quindi chi dissente “fa il gioco del nemico”.

Trump, dal canto suo, ha trasformato i suoi seguaci in fedeli di una religione politica: il culto del leader, la delegittimazione delle istituzioni, la fede cieca nella menzogna condivisa.

E nelle democrazie più temperate, come l’Italia, il controllo non passa per la violenza ma per la seduzione: il linguaggio dell’identità, del patriottismo, della “normalità” che spinge a conformarsi e a diffidare di chi è diverso.

La nuova sorveglianza

Il telescreen di Orwell non serve più: oggi siamo noi stessi a fornire i dati della nostra vita privata, a costruire il nostro dossier quotidiano sui social, a rendere pubblici pensieri, gusti, opinioni.

La sorveglianza non è più imposta — è desiderata.

L’uomo moderno non teme il Grande Fratello, lo segue.

È questa, forse, la più sottile e perfetta realizzazione della profezia orwelliana: la fine del confine tra libertà e controllo, tra spontaneità e manipolazione. Il potere non deve più spiare: gli basta ascoltare ciò che offriamo spontaneamente.

La verità come resistenza

Se 1984 è più attuale che mai, è perché mostra la verità come atto di coraggio. Nel romanzo, Winston Smith cerca di preservare un frammento di realtà, un ricordo non contaminato, una parola autentica. Fallisce — ma il suo gesto resta simbolico.

Nel nostro tempo, la difesa della verità è la nuova forma di resistenza civile: giornalisti che continuano a indagare, cittadini che rifiutano il linguaggio manipolato, istituzioni che difendono la libertà d’espressione. Ogni volta che un governo riscrive la storia, che un leader nega l’evidenza, che un media rinuncia alla sua indipendenza, *1984* si avvicina. Ogni volta che qualcuno osa dire “2 + 2 = 4”, anche quando tutti intorno gridano il contrario, Orwell è ancora vivo.

Un monito morale

Oggi 1984 non è più soltanto un romanzo politico, ma un monito morale: ci ricorda che la libertà non muore d’un colpo, ma per logoramento; che la menzogna, ripetuta mille volte, diventa realtà; e che la verità, se non la difendiamo ogni giorno, può essere cancellata in silenzio, come un file nel buco della memoria.

Putin ne incarna la violenza esplicita, Trump la manipolazione del linguaggio, Meloni la seduzione del consenso mediatico imposto dall'alto. Tre volti diversi dello stesso pericolo: il dominio sulla realtà.

Eppure, la lezione di Orwell resta una speranza. Finché ci sarà qualcuno disposto a ricordare, a dubitare, a scrivere la verità contro la menzogna, il mondo non apparterrà del tutto al Grande Fratello.

Auguri e non di Buon Anno

Ci sono auguri che non mi sento di fare. Non li mando a despoti e tirann i, a guerrafondai in giacca e cravatta o mimetica, a chi accende co...