Il movimento Death to Spotify è nato come una forma di protesta collettiva da parte di artisti, etichette e ascoltatori contro il modello economico delle piattaforme streaming musicali che remunerano in modo insufficiente il lavoro creativo. L’idea è quella di mettere in luce gli squilibri nel rapporto tra che offre contenuti (i musicisti) e le piattaforme che li distribuiscono, chiedendo maggiore trasparenza, share più equi e alternative sostenibili al modello dominante.
Mi sembra un’iniziativa stimolante — e, sì, forse idealistica, ma spesso le utopie sono il motore del cambiamento. Sostenere un movimento come Death to Spotify significa porre all’attenzione le ingiustizie accumulate in anni di streaming dominato da algoritmi e grandi piattaforme, rivendicare il valore del diritto d’autore e mettere pressione affinché si evolvano le logiche contrattuali e distributive.
Ovviamente ci sono ostacoli concreti: servono unità tra artisti, adesione del pubblico e la capacità di proporre alternative praticabili. Ma anche aprire un dibattito è già un passo avanti. Se queste proteste riescono a stimolare riflessioni, mobilitare coscienze e spingere verso riforme (legali, contrattuali, tecnologiche), vanno viste come una mossa coraggiosa e necessaria.
Sono curioso di seguire gli sviluppi per capire se questo movimento riuscirà a tradursi in cambiamenti concreti per chi produce musica — perché, alla fine, il valore dell’arte non può continuare ad essere marginale rispetto ai numeri degli algoritmi.