martedì 28 ottobre 2025

Il business della rabbia sui social

C’è un filo nero che attraversa i social, e Facebook più di tutti: la violenza verbale. Ogni giorno assistiamo a una marea di insulti, sarcasmo velenoso, indignazione gridata. È come se il dialogo fosse diventato impossibile, sostituito da un costante bisogno di aggredire, di affermarsi distruggendo l’altro. Ma non è solo un problema di maleducazione collettiva: è un meccanismo, un ingranaggio ben oliato.

I social si nutrono di emozioni forti — paura, rabbia, disprezzo — perché sono quelle che generano traffico, clic, commenti, condivisioni. Un post rabbioso fa discutere, divide, accende gli animi: e più il tono sale, più cresce la visibilità, l’engagement, il tempo speso sulla piattaforma. È una spirale perversa in cui la negatività diventa moneta sonante.

La rabbia, insomma, genera profitto. E mentre noi crediamo di sfogarci, di dire la nostra, qualcun altro misura il successo in grafici di interazione e in cifre pubblicitarie. I social, nati come luoghi d’incontro e di condivisione, si sono trasformati in amplificatori di rancore, dove la voce più moderata scompare, e l’eco più urlata domina.

Forse il primo passo per invertire la rotta è accorgersene: ricordare che ogni volta che reagiamo con rabbia, c’è qualcuno che ci guadagna. E che la calma, oggi, è la vera forma di resistenza.


Il business della rabbia sui social

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