Il solito Donald Trump lo ha definito “il più grande accordo commerciale della storia”, “una vittoria straordinaria per l’America” e, naturalmente, “un capolavoro negoziale come nessuno aveva mai saputo fare prima”. Con la solita enfasi da televendita, ha raccontato al suo pubblico che la Cina “ha finalmente capitolato”, “ha riconosciuto la nostra forza” e “ha accettato di rispettare l’America”.
Peccato che, osservando bene le carte — e soprattutto i volti — la scena fosse ben diversa. Alla stretta di mano di rito, Xi Jinping non sorrideva granché: sguardo fisso, espressione imperscrutabile, la calma di chi sa esattamente chi ha davvero vinto. Un po’ come un maestro di scacchi che lascia al dilettante l’onore della stretta finale, sapendo che la partita era decisa da dieci mosse.
Trump, invece, gongolava, agitava le mani, proclamava il trionfo davanti ai flash. E mentre a Washington si applaudiva lo “storico successo americano”, a Pechino si contavano i vantaggi strategici, ben più solidi dei tweet. In fondo, Trump aveva ragione su un punto: l’accordo è davvero storico — solo che passerà alla storia come l’ennesimo autogol travestito da vittoria.
