sabato 29 novembre 2025

Trump e la stampa: un bullo al potere

È semplicemente intollerabile. L’ennesimo insulto di Trump a una giornalista — definita “stupida” solo per aver fatto il suo lavoro — è l’ennesimo schiaffo alla decenza pubblica. Non è “stile”, non è “carattere”: è violenza verbale, è disprezzo per la libertà di stampa, è bullismo da bar travestito da politica, machismo e misoginia allo stato puro. È puro schifo.

E il fatto che continui a farlo, giorno dopo giorno, senza la minima vergogna, è la misura esatta del degrado che rappresenta. Basta. Davvero, basta.

E intanto il truce inquilino della Casa Bianca si agita come un capo piazzista di guerra, già pronto — pare — a trascinare gli Stati Uniti in un nuovo, irresponsabile fronte contro il Venezuela, per motivi tutt’altro che limpidi, con l’opacità e la spregiudicatezza che lo contraddistinguono. Un uomo condannato dalla giustizia e squalificato dai fatti, che pretende di amministrare il mondo come fosse la sua azienda fallita, l’ennesima.

Chip Somodevilla//Getty Images


Un eroe della strada: la chitarra randagia di Beppe Maniglia


A Bologna, ma non solo, pronunciare il nome di Beppe Maniglia è come aprire uno squarcio rock'n'roll sul grigiore cittadino. Beppe non è solo un grande chitarrista; è un’istituzione, un frammento inossidabile di storia popolare e un’icona di libertà espressiva.

Chi, come me, ha avuto la fortuna di vederlo in azione, magari con la sua inseparabile, mostruosa Harley-Davidson modificata come palcoscenico e amplificatore, ricorda la potenza quasi mistica che emanava in Piazza Maggiore o d'estate sul lungomare di Cattolica. Non era semplicemente un artista di strada, ma un autentico guerriero della musica, con quei bicipiti muscolosi che facevano onore al suo pseudonimo e la capacità di trasformare l'aria di una piazza in una scarica elettrica di rock e blues.

Certo, negli anni non son mancate le polemiche, le multe e gli allontanamenti, gli attriti inevitabili tra la forza indomita dell'arte di strada e le rigide regole della vita cittadina. Ma in fondo anche questo fa parte del suo mito: Beppe Maniglia è stato ed è tuttora il simbolo di chi suona dove vuole e come vuole, non per i riflettori patinati, ma per l'autenticità del contatto con la gente.

Alla domanda "Perché Beppe Maniglia non è diventato uno dei chitarristi più famosi nel mondo?", la risposta forse è proprio in quella scelta: la sua fama non è misurabile in dischi di platino, ma nell'affetto e nel ricordo di intere generazioni che sono cresciute con le sue note come colonna sonora. Ha scelto il mondo come teatro e i suoi ascoltatori come famiglia. Rifiutando le costrizioni e le leggi del mercato discografico, ha preferito la libertà assoluta.  

Non molti sanno forse che agli inizi della carriera, negli anni '60 un certo Valerio Negrini, che più tardi avrebbe raggiunto un enorme e duraturo successo con i Pooh, suonò in più occasioni con lui. Poi le loro strade si separarono, come capitava di frequente negli anni ruggenti del Beat e delle serate in balera.

Valerio Negrini (secondo da sinistra) con i Pooh nel 1971

Oggi l'eco delle cavalcate sonore del mitico Beppe non si è spento. Magari la sua presenza si è fatta più rarefatta in strada, ma la sua musica continua a vivere e la sua storia è fonte d'ispirazione. Beppe Maniglia ci ricorda una verità preziosa: la vera arte non ha bisogno di pareti o biglietti, ma solo di passione, muscoli e una "maniglia" per piegare le note alla propria, inconfondibile volontà. E in questo ricordo, c'è solo un sorriso grato per il mito che ha creato, un mito di musica, tenacia e libertà.

venerdì 28 novembre 2025

Pasolini, l’intellettuale scomodo che la Destra non potrà mai arruolare

È curioso, e insieme sconfortante, vedere come, periodicamente, riemergano tentativi tanto grossolani quanto infondati di arruolare Pasolini nel pantheon della destra. Una tesi che non regge un secondo all’esame della sua opera, della sua vita intellettuale e del suo impegno politico. Basterebbe leggere davvero Scritti corsari o Lettere luterane per capire quanto fosse lontano da qualsiasi simpatia per il fascismo: lì Pasolini denuncia senza mezzi termini la mutazione antropologica del Paese, l’omologazione consumistica, e smaschera proprio quella «nuova forma di fascismo» che vedeva crescere nel corpo della società italiana. Altro che nostalgie reazionarie: Pasolini spendeva le sue energie per criticarne i ritorni mascherati.

Lo stesso vale per la sua produzione narrativa e poetica: Ragazzi di vita e Una vita violenta sono un atto d’amore verso gli ultimi, verso quel sottoproletariato che il potere — ieri come oggi — preferisce ignorare o strumentalizzare. Quel mondo Pasolini lo racconta senza paternalismo, con compassione e lucidità, muovendo sempre da una posizione incompatibile con qualsiasi ideologia autoritaria. Perfino il suo cinema più estremo, da Accattone a Salò, è un violentissimo atto d’accusa contro la violenza del potere, contro la sopraffazione, contro l’ordine imposto. Un autore che filma la derisione del potere, non che la celebra.


Che oggi qualcuno pretenda di trasformarlo in un santino di destra è uno squallido esercizio di manipolazione culturale che conta sulla scarsa memoria e sulla pigrizia intellettuale. Ma basta tornare ai suoi testi per dissipare ogni illusione: Pasolini non è mai stato “fascista”. È stato, semmai, uno degli intellettuali più radicali, più inquieti e più corrosivi del Novecento italiano, e proprio per questo continua a essere scomodo per molti.

giovedì 27 novembre 2025

La parabola amara di Richard Benson

Richard Benson è stato un personaggio unico nel panorama musicale italiano: musicista, critico, intrattenitore, figura eccentrica e spesso controversa. Una vita vissuta sempre sopra le righe, tra passioni autentiche e cadute fragorose, fino a trasformarsi in una sorta di mito informale della controcultura italiana.

Negli anni Ottanta e Novanta Benson era una presenza familiare per molti appassionati di rock e metal: le sue mitiche apparizioni televisive, i giudizi tranchant, l’entusiasmo sincero per la musica che amava. Era un divulgatore atipico, a volte scomposto, ma animato da una passione genuina. E, per chi lo seguiva, anche un brillante chitarrista, spesso oscurato dal personaggio che nel tempo aveva finito per divorarlo.

Poi la discesa: i problemi economici sempre più gravi, la salute compromessa, la marginalità. Negli ultimi anni Benson era diventato una figura tragica, quasi dantesca, intrappolata in un ruolo che il pubblico più cinico gli aveva cucito addosso. Emblematica la scena dei suoi concerti “protetti” da una rete, montata per evitare il lancio di oggetti dal pubblico: un’immagine grottesca e insieme dolorosa, che racconta meglio di qualsiasi biografia lo scarto tra la sua ostinazione a restare sul palco e il sadismo di una parte degli spettatori.

La sua morte, avvenuta nel 2022, ha messo fine a un’esistenza segnata tanto da talento e passione quanto da fragilità e solitudine. Rimane il ricordo di un artista che ha pagato un prezzo altissimo per la propria eccentricità, ma che ha attraversato, a modo suo, decenni di cultura musicale italiana.

Dietro gli eccessi e le smorfie rimane, per chi vuole vederlo, un monito: la linea sottile che separa l’icona pop dalla persona reale, con la sua dignità, le sue fragilità e la sua inevitabile vulnerabilità.







Black Phone: un tuffo negli anni '70 con brivido d’autore

Uscito nel 2021, Black Phone (di cui è da poco uscito il sequel) è uno di quei rari film contemporanei che riescono davvero a evocare un’epoca senza limitarsi a imitarne i dettagli. Ambientato nei tardi anni Settanta, sembra proprio un film girato in quegli anni: nelle luci leggermente sporche, nei colori un po’ desaturati, nella fisicità degli ambienti, nelle biciclette scassate e nei quartieri di periferia che sanno di polvere, caldo e cattive intenzioni. 

Scott Derrickson costruisce un’ambientazione così credibile che basta un’inquadratura per sentirsi immediatamente dentro quel mondo, tra quotidianità modesta e inquietudine latente.

La storia, con il suo mix di thriller, horror e dramma, è raccontata con un passo asciutto e diretto, senza l’ossessione per l’eccesso visivo tipica di tanto cinema contemporaneo. Merito anche delle ottime interpretazioni, su tutte quella del giovane protagonista e di un disturbante, magnetico Ethan Hawke, che riesce a insinuarsi nei pensieri dello spettatore anche quando non è in scena.


Una curiosità gustosa: dopo il caleidoscopico Doctor Strange, Derrickson torna a utilizzare un brano dei Pink Floyd nella colonna sonora, una scelta non solo nostalgica ma particolarmente azzeccata. Le atmosfere psichedeliche e oblique della band inglese si fondono perfettamente con il mood sospeso del film, amplificandone la tensione emotiva e donandogli un tocco musicale di pura, elegante inquietudine.


Nel complesso, Black Phone è un piccolo gioiello di atmosfera e mestiere: un film che spaventa, intriga e sorprende con la stessa naturalezza dei migliori classici del passato.

mercoledì 26 novembre 2025

Paul McCartney: gli dei del rock non hanno età

Nel 2013 Paul McCartney con l'album New dimostrava di avere ancora una freschezza incredibile (non che oggi, nel 2025, le cose siano poi cambiate molto, eh!). Con l’aiuto di produttori come Paul Epworth, Mark Ronson, Giles Martin (figlio di un certo George Martin) ed Ethan Johns, il leggendario musicista unisce innovazione e classe, senza perdere la sua identità musicale.

L’album si apre con Save Us, scoppiettante e rock, seguita da Alligator, che fonde atmosfere anni ’60 con sonorità più attuali. Brani come Road, con tastiere e percussioni originali, e Appreciate, che strizza l’occhio all’hip hop, mostrano la voglia di sperimentare. Non mancano momenti più nostalgici, come Early Days, ballad acustica che richiama i suoi esordi, o On My Way To Work, dal pop tipico degli Wings. Queenie Eye è rock psichedelico puro, pulsante di energia e gioia di suonare.

New è un disco estremamente curato, ricco di idee e brillante negli arrangiamenti, un chiaro segnale che McCartney continuava a guardare avanti, come peraltro fa tuttora, nel 2025, alle prese con l'ennesimo, trionfale tour. In termini d'importanza nella sua discografia, New si può collocare accanto a Chaos and Creation in the Backyard e allo storico Ram.



martedì 25 novembre 2025

Mao II, il ruolo dello scrittore nell'era del terrorismo

Mao II di Don DeLillo, da sempre il mio scrittore preferito e che ho avuto la fortuna di ascoltare qualche anno fa alla Festa del Cinema di Roma curata (molto bene) da Antonio Monda, esplora il rapporto tra individuo e massa in un mondo sempre più dominato dallo strapotere dei media e, per altri versi, dal terrorismo internazionale. 

Bill Gray, un famoso scrittore che vive da autorecluso, viene risucchiato in un complotto terroristico che sfida le sue convinzioni sulla scrittura e l'impatto dell'artista sulla società. 

Con la sua prosa acuta e ricca di osservazioni, DeLillo affronta temi come la perdita d'identità, il potere dell'immagine e la manipolazione della realtà, offrendo una riflessione profonda e inquietante sulla condizione umana nell'era moderna.

La recensione completa è qui.


Don DeLillo (Nicolas Guerin/ Contour by Getty Images)


Nick Drake, il canto fragile che non abbiamo saputo ascoltare

Ricorre oggi l’anniversario della morte di Nick Drake, avvenuta il 25 novembre 1974. Un artista luminoso e vulnerabile, che in vita non riuscì mai a trovare un vero spazio nel mondo musicale, forse perché troppo appartato, troppo sensibile, troppo distante dai rumori che lo circondavano.

I suoi tre album, oggi considerati opere imprescindibili del folk britannico, passarono quasi inosservati al momento della pubblicazione. Eppure in quei solchi c’era già tutto: la chitarra cristallina, la voce timida e profonda, quella malinconia lieve che non si trasformava mai in disperazione, ma rimaneva sospesa come un pensiero appena sussurrato.

Oltre alla celebre Pink Moon, vale la pena ricordare altri brani che raccontano la sua grandezza: River Man, forse il suo capolavoro; Northern Sky, tra le sue melodie più luminose; Time Has Told Me, delicata e piena di grazia; From the Morning, un saluto gentile che oggi suona quasi come un testamento spirituale.

Il successo postumo di Drake è una delle parabole più amare della musica: abbiamo imparato ad ascoltarlo solo quando la sua voce non poteva più rispondere. Ma quella voce, quel soffio fragile, continua a raggiungerci intatto. E ogni 25 novembre ci ricorda quanto talento, a volte, può essere troppo sottile per attraversare indenne il peso del mondo.



Alice in chains, benedetti dal... diavolo!

C’è chi sostiene, con un misto di rassegnazione e snobismo, che nel pieno del nuovo millennio non sia più possibile creare opere davvero significative in campo musicale o letterario. Secondo i critici più radicali, dopo le grandi stagioni creative del passato non resterebbe che ripetere formule già note, senza la possibilità di produrre qualcosa di autenticamente nuovo. È una visione che non condivido. La storia insegna che dopo ogni epoca d’oro ne arriva un’altra, in forme impreviste: la grande musica classica non ha impedito l’esplosione di Beatles, Rolling Stones, Hendrix o Pink Floyd, e la loro eco risuona ancora oggi, influenzando intere generazioni. Con questo spirito ho riascoltato The Devil Put Dinosaurs Here degli Alice in Chains, un disco che ancora oggi, a distanza di anni, resta un esempio solido di come una band possa evolversi senza rinnegare la propria identità.

L’album colpisce per cura, compattezza e coerenza: dalla produzione al lavoro vocale, dall’artwork alla costruzione dei brani, tutto concorre a disegnare un suono maturo, cupo, pieno. È un disco che incrocia melodia e potenza, con armonizzazioni vocali sempre più ricercate e un gusto per la chitarra scura e abrasiva che attraversa l’intera scaletta.

Il pezzo che dà il titolo all’album è emblematico: una suite rock di quasi sette minuti, monumentale nella sua oscurità, imperniata su un riff pesante e su una batteria che avanza compatta come un’onda d’urto. Segue Lab Monkey, che conferma un certo gusto vintage: un rock duro venato di echi ’70, tra Black Sabbath e inflessioni metal moderne.

Splendida Phantom Limb, lunga, tesa, ipnotica. Suggestiva Hung on a Hook, ballad di grande impatto emotivo. E poi Scalpel, che sorprende con le sue atmosfere sospese tra grunge e country, con cori quasi beatlesiani: un segnale chiaro del fatto che la band non ha paura di contaminare e spostarsi verso territori meno convenzionali.

La lunga gestazione dell’album — complicata anche da un intervento alla spalla per Jerry Cantrell — non ha fatto che rafforzarne la compattezza. Uscito dopo oltre un anno di lavoro in studio, il disco ha ottenuto un consenso ampio sia dal pubblico che dalla critica, e resta oggi una delle prove più convincenti della seconda vita degli Alice in Chains. 



lunedì 24 novembre 2025

Ricordando Jimmy Cliff

C’è una luce particolare che continua a brillare nella storia del reggae: quella di Jimmy Cliff. Non soltanto una voce, ma una presenza magnetica, capace di portare il ritmo dell’isola oltre ogni confine geografico e culturale. Cliff ha incarnato l’anima più aperta e universale del reggae, trasformando brani come Many Rivers to Cross e The Harder They Come o Reggae Night in inni senza tempo, capaci di parlare a chiunque, ovunque.

Attore, cantautore, ambasciatore musicale: Cliff ha sempre unito energia, spiritualità e impegno, diventando simbolo di speranza e resilienza. Ricordarlo oggi significa ripensare alla potenza di una musica che non pretende effetti speciali, ma vibra di vita vera, di sfide superate e di cammini ancora da intraprendere.

Jimmy Cliff resta una guida luminosa: una voce che non smette di attraversare i fiumi e di toccare le anime.



domenica 23 novembre 2025

Quando il libro parla… troppo!

Ammettiamolo, gli audiolibri sono come i panini da asporto: comodi, già pronti, intangibili, ma a volte manca quel sano gusto "casereccio" della lettura tradizionale, su carta. Nel mio ultimo editoriale su Libri e Parole rifletto proprio su questo: sì, l’audiolibro è una rivoluzione, ma non è mica la panacea letteraria che molti dipingono!

Certo, alcuni pregi sono innegabili: l’ascolto ti permette di “leggere” mentre fai altre cose, e può avvicinare alla cultura chi ha poco tempo o poca voglia di aprire un libro vero. Ma poi ci sono i limiti: a volte l’esperienza diventa troppo passiva, la voce del narratore prende il sopravvento sul testo, e l’ascoltatore rischia di trasformarsi in un turista distratto in un tour guidato senza brochure.

Nel mio pezzo esploro come questo formato, per quanto moderno e utile, non debba essere idealizzato come sostituto perfetto del libro tradizionale. Una piccola ricognizione ironica tra entusiasmi, fraintendimenti e qualche inevitabile nota stonata.

➡️ L’editoriale completo è qui.

Il culto dell'ignoranza

 

Anti-intellectualism has been a constant thread winding its way through our political and cultural life, nurtured by the false notion that democracy means that my ignorance is just as good as your knowledge.

(Isaac Asimov)


Il grande Isaac Asimov aveva colto un punto dolorosamente attuale. Le sue parole, scritte nel 1980 — un monito e una diagnosi — si adattano perfettamente al nostro presente, in cui la competenza smette di essere un valore e l’opinione non informata pretende lo stesso peso del sapere.


Proprio così: oggi quella riflessione risuona più attuale che mai. Viviamo immersi in un rumore di fondo dove la superficialità viene scambiata per autenticità, l’improvvisazione per spontaneità, l’incompetenza per “buon senso”. E il fenomeno non riguarda solo il dibattito pubblico: lo vediamo tristemente riflesso nell’attuale classe politica, spesso ostile a tutto ciò che richiede studio, consapevolezza, conoscenza. L’arte e la cultura vengono trattate come un lusso trascurabile, quando non addirittura come territori sospetti, da guardare con diffidenza.


Il risultato è sotto gli occhi di tutti: si governa a colpi di slogan, si decide senza comprendere, si liquida la complessità come fosse un intralcio. È l’arroganza degli ignoranti, la più pericolosa: quella di chi non solo non sa, ma nemmeno sospetta che ci sia qualcosa da sapere.


Eppure Asimov ci ricordava anche un’altra verità: la conoscenza non è mai un peso, semmai è ciò che ci rende liberi. Forse dovremmo tornare a ripetercelo, e pretendere che chi aspira a guidare un paese lo sappia almeno quanto noi.

Kennedy parlava al futuro. Trump lo divora

[...] E così, miei concittadini americani, non chiedete che cosa il vostro paese può fare per voi; chiedete che cosa potete fare voi per il vostro paese. Miei concittadini del mondo, non chiedete che cosa l'America vuole fare per voi, ma che cosa insieme possiamo fare per la libertà dell'uomo [...]

Ieri ricorreva l’anniversario dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963), il che mi offre il destro per tentare di riflettere su un’eredità che pare ormai appartenere a un’altra epoca: un’epoca di slancio ideale, speranza e responsabilità civica.

Kennedy incarnava un modello di leadership coraggiosa, basata sul servizio al Paese: nelle sue parole celebri invitava gli americani a non chiedere cosa il Paese può fare per loro, ma cosa loro possono fare per il Paese.  Il suo impegno per i diritti civili, la pace, e la cooperazione internazionale mostrava una visione alta, non guidata da interessi personali o da istinti populisti. 

Nel suo famoso discorso a Berlino, pronunciò «Ich bin ein Berliner», manifestando solidarietà con chi viveva sotto il peso della divisione e della tirannia. 

Oggi chi siede alla Casa Bianca appare a dir poco lontano da quei valori. Il contrasto è siderale: non si tratta solo di ovvie differenze politiche, ma di una discesa nella retorica divisiva, nella corrosione dell’ideale pubblico, nella costruzione del potere su paure e egoismi. Manca quell’orizzonte di responsabilità condivisa, quel senso di servizio che per Kennedy era centrale.

Ricordare JFK non è solo commemorare una tragedia: è riaffermare che un’idea di politica elevata — fatta di visione, coraggio e altruismo — non è solo nostalgia, ma una misura necessaria contro il cinismo del presente. Nel ricordare l'uomo assassinato a Dallas quel lontano giorno di novembre di sessantadue anni fa, viene spontaneo, volgendo lo sguardo a oggi, constatare con rammarico e una punta d'angoscia che al suo posto oggi compare un uomo avido e corrotto, che della grandezza presidenziale conserva solo la sagoma sformata. Un contrasto che parla da sé, e che basta da solo a far rimpiangere un’America migliore.

sabato 22 novembre 2025

Indimenticabile Ornella: un ricordo di Ornella Vanoni

La prima volta che vidi Ornella Vanoni dal vivo fu nel 1985, durante la fortunatissima tournée con Gino Paoli, da cui fu tratto anche un ottimo album dal vivo. Ebbi la fortuna di assistere a una delle date più riuscite, al Teatro Sistina di Roma. Una serata splendida, carica di atmosfera, in cui la complicità tra i due si mescolava a una musica elegante, calibrata, capace di alternare malinconia e ironia. Proprio l’ironia — fulminea, disarmante — fu ciò che più mi colpì di Ornella quella sera: la sua abilità nel giocare con il pubblico, nel ribaltare una pausa o una battuta, nel trasformare ogni attimo in scena viva.

Anni dopo, ebbi modo di intervistare Mario Lavezzi, musicista e compositore geniale, che la seguì soprattutto negli ultimi anni, curandone la produzione musicale e i concerti. Ne parlava con grande affetto e ammirazione: riconosceva in lei un rigore professionale raro, una curiosità mai spenta e una voce che, pur attraversando decenni, continuava a reinventarsi senza perdere identità.

La Vanoni è stata un’artista completa, una figura capace di travalicare le mode con naturalezza. Negli anni Settanta e Ottanta fu anche un’icona sexy, un ruolo che interpretava con leggerezza, autoironia e una consapevolezza molto moderna. Sempre un passo oltre, sempre un po’ altrove rispetto alle convenzioni.

Per chi, come me, ha avuto il privilegio di vederla su un palco come quello del Sistina in quella stagione irripetibile, resta soprattutto questo: un ricordo vivido, elegante, ironico, inconfondibile: proprio come lei.

Nuove forme di solitudine: “Insieme ma soli”, l'ammonimento di Sherry Turkle


Sherry Turkle, eminente psicologa e docente di sociologia della scienza al prestigioso MIT di Boston, studia da decenni le complesse interazioni tra il mondo dell'informatica, visto nei suoi vari aspetti, e la società contemporanea.

In passato ho molto apprezzato un altro suo saggio, La vita sullo schermo (Apogeo, 1997), che analizzava le ancora giovani relazioni uomo – macchina, affrontate con particolare riferimento all'allora nascente dimensione virtuale. La visione della studiosa in quel periodo era tutto sommato di prudente ottimismo, in quanto non considerava necessariamente negativi fenomeni quali gli “avatar” e gli allora in voga “Second Life” e “Myspace”.


In Insieme ma soli, saggio uscito qualche tempo fa ma tuttora di grande attualità, il suo giudizio sugli effetti psicologici indotti dall'uso – anzi, dall'abuso, diciamocelo francamente –  delle moderne tecnologie sembra mutato in senso negativo.

Oggi la dilagante e onnipresente presenza nelle nostre vite di dispositivi quali smartphone e tablet cambia in maniera irreversibile i nostri comportamenti, sfociando non di rado in vere e proprie manifestazioni patologiche. Pensiamo alle frotte di individui fermi al semaforo o addirittura deambulanti in mezzo al traffico con lo sguardo e le dita incollati allo schermo dello smartphone.


La Turkle indaga a fondo su questi fenomeni, spiegandoli in chiave affatto consolante. Il ricorso ossessivo allo smartphone è spesso espressione di un disagio esistenziale: fermi alla fermata dell'autobus o seduti in sala d'attesa, vediamo giovani – ma non solo – controllare compulsivamente se hanno ricevuto messaggi sulle varie piattaforme, Facebook in primis. Il più delle volte si tratta di una sorta di azione automatica, non realmente necessaria. E se entrano appunto sui vari social media lo fanno non per entrare realmente in contatto con altri soggetti, limitandosi a inserire nuovi “Like” o a verificarne numero e presenza.

Si cade vittime – suggerisce la Turkle – di un pericoloso abbaglio, nel confondere azioni come postare “status” e condividere foto, ecc. con la comunicazione vera e propria. Quasi come se stessimo fuggendo dall'impegno, ma anche dalla maggiore gratificazione, di un'autentica relazione nel mondo reale, a tutto vantaggio, si fa per dire, di una connessione puramente digitale.


Non a caso le nuove generazioni tendono a telefonare sempre meno – ne hanno preso atto naturalmente anche i gestori telefonici, che oggi infatti privilegiano l'offerta di connettività Internet alla tradizionale offerta “voce” – preferendo alla comunicazione verbale il ricorso alle chat: minore esposizione personale dunque, al riparo dei vari profili “social”. I quali spesso corrispondono poco alla realtà, legati come sono al numero dei contatti e del look che si vuole trasmettere: presenze senza sostanza, in definitiva.


Non solo: Sherry Turkle ha dedicato molti anni anche alle complesse dinamiche uomo – robot. Dai primi giochi interattivi degli anni Ottanta all'avvento dei famigerati Furby  e della robotica domestica, la nostra percezione di quelle che prima o poi si manifesteranno come vere e proprie I.A. (Intelligenze Artificiali) sta cambiando: in molti sembrano preferire la compagnia di un cucciolo digitale a quella di un animale vero e anche la prospettiva di badanti e nurse robotiche sembra allettante per più d'uno.

Scenari fantascientifici, da bollare come fantasie da film hollywoodiano? Niente affatto, ci avverte la Turkle: queste tecnologie stanno progredendo a grande velocità, e dovremo fare i conti con esse quanto prima, quantomeno per non smarrire del tutto la nostra umanità.


Video (sottotitolato):


https://www.ted.com/talks/sherry_turkle_alone_together?language=it

giovedì 20 novembre 2025

Quando la politica degenera in polemica ridicola

La polemica tra il Quirinale e Bignami è l’ennesimo spettacolo indecoroso della nostra politica: uno scontro tanto inutile quanto rivelatore. Da una parte l’istituzione più alta dello Stato costretta a ribadire l’ovvio; dall’altra un viceministro di un governo parodistico, che scambia la serietà delle cariche per un palcoscenico da comizio permanente. 

Il risultato? Un teatrino misero, fatto di provocazioni e vittimismo, che aggiunge un altro strato di fetido squallore al già affollato museo delle polemiche inutili italiane. O dobbiamo pensare che si tratti di un'astuta manovra di distrazione di massa per distogliere l'attenzione dai gravi danni provocati da Meloni e soci?

Miley Cyrus: Something Beautiful, mix riuscito di pop, sperimentazione e nostalgie disco

Something Beautiful, il nono album in studio di Miley Cyrus, uscito il 30 maggio 2025, si presenta anche come un visual album, accompagnato da un film musicale lanciato a giugno al Tribeca Festival. 

Co-prodotto dalla stessa Miley insieme a Shawn Everett e altri, il disco esplora il tema della guarigione da traumi e della ricerca della luce anche nelle tenebre.

Prelude apre l’album con un’interessante introduzione strumentale, creando subito un’atmosfera cinematografica e introspettiva.

La title track Something Beautiful unisce melodie pop a arrangiamenti eleganti, mantenendo un equilibrio tra accessibilità e ricercatezza produttiva.

More to Lose, secondo singolo uscito il 9 maggio, ha ottenuto buon riscontro nelle classifiche, confermando l'ammirevole equilibrio tra intensità emotiva e appeal radiofonico.

Easy Lover, terzo singolo del 30 maggio, aggiunge un tocco più ritmico e coinvolgente.

End of the World, il singolo apripista uscito il 3 aprile, è un brillante disco-pop con venature dance/Europop, caratterizzato da piano anni ’70, archi e beat midtempo. Il video, retrò e seducente, mette in risalto la voce un poco graffiante di Miley. Il brano richiama apertamente lo stile e il sound degli ABBA di Mamma Mia. In effetti, la struttura melodica e il fraseggio nel ritornello della canzone evocano l’irresistibile gancio della storica hit degli Abba, con un tocco vintage e festoso che non nasconde le influenze retro.

Una sperimentazione inusuale per Miley

Pur restando nell'ambito pop, Miley spinge sui confini: arrangiamenti progressivi, episodi elettronici o ambient, e la combinazione di stili – indie, soul, rock – la rendono un disco coraggioso. 

Il progetto visivo stesso si rifà a  concept ambiziosi, con affinità a The Wall dei Pink Floyd (!), conferendogli un respiro artistico più alto del solito.

Siamo davanti a un’evoluzione ambiziosa nel percorso di Miley Cyrus, tra estetica glam e introspezione emotiva.

Insomma, Something Beautiful è un bel disco, autentico e, nei suoi momenti più vivaci, suona come un divertito omaggio alle sonorità di band come i già citati Abba e i Fleetwood Mac degli anni d'oro. Ma è innegabile anche l'influenza della rivale Lady Gaga in brani come Walk of Fame.



martedì 18 novembre 2025

Il dilagare dei podcast

Nel vasto universo digitale, i podcast, dopo molte false partenze, continuano a proliferare come funghi dopo la pioggia. Eppure c’è chi, davanti all’ennesima logorroica puntata da un’ora e mezza, prova un’irresistibile insofferenza. Non è questione di qualità o di contenuti: semplicemente manca il tempo, e soprattutto la pazienza, per farsi leggere fiumi di parole (ah, i Jalisse…) nelle orecchie, spesso inoltre da perfetti sconosciuti.

La società si divide fra chi ascolta tutto a 1.5x e chi preferisce cliccare “non seguire più” con la stessa serenità con cui spegne una notifica molesta. Per alcuni, il silenzio resta la forma più pura di intrattenimento.


Insomma: nulla contro chi li ama, ma l’universo può tranquillamente continuare a girare anche senza l’ennesimo podcast in sottofondo.

lunedì 17 novembre 2025

Buon anniversario a Outlandos d’Amour!

Il primo, folgorante album dei Police compie gli anni oggi, e risuona ancora come un’esplosione di freschezza, energia e invenzione. L’alchimia tra StingStewart Copeland e Andy Summers è già perfetta: tre personalità diversissime che, insieme, hanno creato un suono nuovo, immediatamente riconoscibile.

Copeland porta in dote una batteria nervosa, scattante, quasi avanguardistica per l’epoca: un drumming elastico, pieno di accenti imprevedibili, che ha riscritto le regole. Sting sfodera un basso quasi punk, essenziale ma pulsante, e una voce che taglia l’aria con una modernità sorprendente. Summers, dal canto suo, cesella ogni brano con una chitarra strepitosa, fatta di atmosfere, dettagli, intuizioni sonore che erano un mondo a sé.

Da Roxanne a So Lonely, ogni traccia sprigiona la magia di una band giovane, affamata, consapevole di avere tra le mani qualcosa di unico. Un debutto che non è solo l’inizio di una carriera straordinaria, ma uno di quei dischi che ti ricordano perché ci si innamora della musica.

Lunga vita alla musica dei Police, e a quell’onda elettrica che continua a travolgerci!



L’uomo che venne dalla Terra, un piccolo grande film

Ci sono film che, pur privi di effetti speciali o budget milionari, riescono a lasciare un segno profondo nello spettatore. L’uomo che venne dalla Terra (The Man from Earth, 2007), scritto da Jerome Bixby e diretto da Richard Schenkman, appartiene a questa ristretta categoria di opere capaci di catturare l’attenzione con la sola forza del racconto.

Girato quasi interamente in una stanza, con pochi attori e nessuna azione spettacolare, il film si regge su un’idea tanto semplice quanto affascinante: un uomo, John Oldman, professore universitario, confessa ai suoi colleghi di essere un Cro-Magnon di 14.000 anni che non è mai morto. Da qui si apre un dialogo serrato, filosofico, scientifico e religioso, in cui ogni personaggio reagisce diversamente alla rivelazione.


Il fascino del film sta tutto nella parola, nella tensione intellettuale e nel dubbio costante che attraversa lo spettatore: e se fosse vero? L’uomo che venne dalla Terra è, in fondo, un esperimento teatrale in forma cinematografica, un racconto di fantascienza “da camera” che non ha bisogno di astronavi o computer grafica per sollevare domande fondamentali sul tempo, sulla memoria, sulla fede e sull’identità umana.


Straordinaria l’interpretazione di David Lee Smith nel ruolo di John, capace di dosare mistero e umanità con misura perfetta, mentre attorno a lui il gruppo di colleghi – scienziati, storici, credenti e scettici – incarna le diverse facce della razionalità e della credulità.


Alla fine, il film ci lascia sospesi tra incredulità e meraviglia, come in ogni grande storia di fantascienza: il mistero non viene risolto, ma ci accompagna ben oltre i titoli di coda.


Un piccolo capolavoro di scrittura e recitazione, che dimostra come le buone idee – anche con mezzi ridotti all’osso – possano valere più di mille effetti digitali. Un film da riscoprire, capace di far pensare e di emozionare con la sola forza della parola, e, pregio non da poco, senza annoiare.




domenica 16 novembre 2025

Una traversata nell’incubo: Demeter - Il risveglio di Dracula

Demeter  Il risveglio di Dracula (titolo italiano furbastro ma totalmente inventato rispetto all'originale, ben più appropriato, The Last Vojage of the Demeterdel talentuoso regista e sceneggiatore norvegese André Øvredal è uno di quei film che, pur muovendosi entro coordinate note — il celebre capitolo del Dracula di Bram Stoker dedicato al viaggio della nave — riesce a restituire freschezza, tensione e un’autentica atmosfera d’altri tempi. 

Il regista sfrutta al meglio l’ambientazione claustrofobica del veliero per costruire un horror marittimo cupo, lineare ma estremamente efficace, che ricorda certe storie di mare alla Poe, filtrate però attraverso un linguaggio cinematografico moderno e molto curato.

La scenografia e la fotografia sono senza dubbio tra i punti di forza: il Demeter sembra un personaggio vivo, scricchiolante, immerso in un’oscurità che inghiotte e restituisce forme inquietanti. Il film dosa con intelligenza i momenti di attesa e le apparizioni della creatura, scegliendo un’estetica gotica che valorizza sia la potenza iconica di Dracula sia la progressiva discesa nell’orrore dell’equipaggio.



Ottima anche la costruzione dei personaggi, più sfaccettati del previsto per un racconto di pura tensione: ciascuno ha un ruolo preciso nel crescendo drammatico, e l’ottima prova del cast riesce a trasmettere un senso di inevitabilità, come se la nave stessa fosse condannata fin dal varo. Il ritmo è serrato ma mai confuso, e la scelta di mantenere un tono sobrio e privo di ironia rende il tutto più immersivo e rispettoso della matrice letteraria.


Il risultato è un horror elegante, solido, che non punta su colpi di scena artificiosi ma sulla costruzione progressiva del terrore. Demeter non solo rende giustizia a una delle parti più affascinanti del romanzo di Stoker, ma riesce anche a stare in piedi come film autonomo: un viaggio nel buio che lascia il sapore salmastro e il brivido autentico delle grandi storie gotiche.




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