C’è chi sostiene, con un misto di rassegnazione e snobismo, che nel pieno del nuovo millennio non sia più possibile creare opere davvero significative in campo musicale o letterario. Secondo i critici più radicali, dopo le grandi stagioni creative del passato non resterebbe che ripetere formule già note, senza la possibilità di produrre qualcosa di autenticamente nuovo. È una visione che non condivido. La storia insegna che dopo ogni epoca d’oro ne arriva un’altra, in forme impreviste: la grande musica classica non ha impedito l’esplosione di Beatles, Rolling Stones, Hendrix o Pink Floyd, e la loro eco risuona ancora oggi, influenzando intere generazioni. Con questo spirito ho riascoltato The Devil Put Dinosaurs Here degli Alice in Chains, un disco che ancora oggi, a distanza di anni, resta un esempio solido di come una band possa evolversi senza rinnegare la propria identità.
L’album colpisce per cura, compattezza e coerenza: dalla produzione al lavoro vocale, dall’artwork alla costruzione dei brani, tutto concorre a disegnare un suono maturo, cupo, pieno. È un disco che incrocia melodia e potenza, con armonizzazioni vocali sempre più ricercate e un gusto per la chitarra scura e abrasiva che attraversa l’intera scaletta.
Il pezzo che dà il titolo all’album è emblematico: una suite rock di quasi sette minuti, monumentale nella sua oscurità, imperniata su un riff pesante e su una batteria che avanza compatta come un’onda d’urto. Segue Lab Monkey, che conferma un certo gusto vintage: un rock duro venato di echi ’70, tra Black Sabbath e inflessioni metal moderne.
Splendida Phantom Limb, lunga, tesa, ipnotica. Suggestiva Hung on a Hook, ballad di grande impatto emotivo. E poi Scalpel, che sorprende con le sue atmosfere sospese tra grunge e country, con cori quasi beatlesiani: un segnale chiaro del fatto che la band non ha paura di contaminare e spostarsi verso territori meno convenzionali.
La lunga gestazione dell’album — complicata anche da un intervento alla spalla per Jerry Cantrell — non ha fatto che rafforzarne la compattezza. Uscito dopo oltre un anno di lavoro in studio, il disco ha ottenuto un consenso ampio sia dal pubblico che dalla critica, e resta oggi una delle prove più convincenti della seconda vita degli Alice in Chains.
