domenica 7 dicembre 2025

L'America di Trump contro l'Europa, mentre Meloni applaude

A tutti quelli che ancora cercano scuse, ecco la verità: l’ultima mossa trumpiana contro l’Europa non è un semplice scambio politico, ma un affondo diretto contro valori fondamentali come sovranità europea, cooperazione, regole condivise, diritti e democrazia. Con la sua nuova Strategia di Sicurezza, schierata apertamente con l’estrema destra europea, il presidente pazzo — o golpista pregiudicato, fate voi  Trump parla di “resistenza interna all’Europa”, di “minacce culturali”, di “ricambio” in Europa: è un attacco ideologico all’anima stessa del nostro continente.

E poi arriva la Meloni. No, non a difendere l’Italia, non a difendere l’Europa. Ma a dire che non c’è “incrinatura” tra Roma e Washington. Che forse ha ragione Trump, che l’Europa deve “difendersi da sola”, che certe accuse sono “troppo assertive”.
In altre parole: Meloni gira la testa dall’altro lato, fa finta di niente, e addirittura giustifica — o peggio, normalizza — queste bordate contro tutto ciò che per noi conta.

Se la Sorella d'Italia fosse davvero patriota, se tenesse davvero all’Italia e all’Europa, starebbe dalla parte di quei 48% di europei che, secondo un recente sondaggio, vedono Trump come un “nemico dell’Europa”.
Invece no. Preferisce tenersi stretta la sua poltrona e i suoi legami, giocando a fare l’equilibrista tra Washington e Bruxelles. Ma non è equilibrio: è tradimento.

Dove sono oggi i principi di sovranità, coesione europea, solidarietà, diritti, democrazia? Dove sono le tutele per i cittadini, se continuiamo a inchinarci al primo che bussa a Washington?

Basta con la retorica di “alleanze utili”. Basta con la subalternità. L’Italia e l’Europa meritano di più: meritano dignità, indipendenza, un progetto collettivo, condiviso, fondato su valori veri: non su interessi di bottega e slogan da campagna elettorale.

Chi davvero ama questo Paese e questo continente non può stare zitto mentre tutto questo viene svenduto per una stretta di mano.

venerdì 5 dicembre 2025

Anni senza fine, il futuro dell’uomo secondo Clifford D. Simak

"Questa, disse Jenkins, era l'ultima città dell'uomo. Era la città che non voleva morire."

Anni senza fine (City) di Clifford D. Simak è un capolavoro della fantascienza, una sinfonia di racconti che si estendono per un milione di anni, tessendo una meditazione profonda, poetica e a tratti straziante sul destino dell'umanità e sul significato della sua eredità. Quest'opera si distingue per la sua visione quieta e rurale del futuro, un futuro dominato dal silenzio e dall'oblio.


Il dramma silenzioso dell'abbandono


Simak rovescia il cliché futuristico: l'uomo non è scacciato dalla Terra da un cataclisma, ma se ne va volontariamente, trovando le città inutili e trascendendo in forme di esistenza superiori. Questo esodo non è una tragedia rumorosa, ma una lenta, malinconica dissoluzione, dove le vestigia della nostra civiltà vengono gradualmente inghiottite dalla natura.


La nascita della civiltà post-umana


Con l'addio dell'uomo, la Terra diventa la culla di una nuova società. I protagonisti di questa nuova era sono i Cani, intelligenze canine evolute, e il robot Jenkins. Il mondo che costruiscono è una civiltà rurale e pacifica, basata sull'onore e sull'amicizia, che si sforza di non ripercorrere gli errori violenti degli "Uomini leggendari".


Jenkins: il cuore meccanico della memoria


Il robot maggiordomo Jenkins è il vero e commovente custode della fiamma umana. Egli è l'archivio ambulante della storia, che tenta disperatamente di dare contesto e significato ai miti che i Cani si raccontano sulla specie assente. La sua lealtà, che perdura per centinaia di migliaia di anni, è il simbolo più potente dell'eredità umana.


Simak, maestro della fantascienza pastorale


Per comprendere l'anima di City, bisogna conoscere il suo creatore. Simak, scomparso nel 1988, giornalista per gran parte della vita, è considerato il padre della "fantascienza pastorale". A differenza di autori ossessionati dalla tecnologia, Simak radicava le sue storie sulla Terra, in contesti di aperta campagna, esplorando temi di solitudine, il ritorno alla natura e un'etica di non-violenza. Le sue risposte ai grandi interrogativi si trovano nella filosofia e nell'armonia, non nelle equazioni scientifiche.


Un'eredità di quiete


City non è solo lettura, la definirei un'esperienza contemplativa. È consigliato a chi cerca una fantascienza che sappia essere al contempo tenera e profonda, e a chiunque voglia confrontarsi con l'idea di un mondo che continua, pacifico e selvaggio, anche molto tempo dopo che l'uomo se n'è andato.


Clifford D. Simak


giovedì 4 dicembre 2025

Khartoum, una lezione di grande cinema

Khartoum (1966) si erge come uno dei più riusciti colossal storici, un'epopea avvincente che illustra in modo magistrale l'assedio di Khartoum e lo scontro tra civiltà, rappresentato dal generale britannico Charles George Gordon e dal leader religioso sudanese Muhammad Ahmad, il temibile Mahdi. 

La pellicola è di grande valore per la sua sostanziale correttezza storica, narrando con rigore il dilemma e il comportamento opportunistico del governo Gladstone, l'invio e il tragico isolamento di Gordon e l'inesorabile avanzata delle forze mahdiste, culminando nell'arrivo tardivo della colonna di soccorso, pur con le inevitabili licenze drammatiche. 


I dialoghi sono un elemento di spicco, risultando efficaci e carichi di tensione ideologica, specie negli intensi confronti tra i due colossi morali opposti, esplorando con acume i temi del dovere, della fede messianica e dell'imperialismo.  


Questo impianto narrativo è splendidamente supportato da una fotografia eccellente, che sfrutta appieno il formato Ultra Panavision 70 e i vasti panorami egiziani per conferire al film un senso di grandezza, isolamento e minaccia incombente, specialmente nelle spettacolari scene di battaglia in campo aperto. 


A dare corpo e anima a questo dramma storico è l'ottima recitazione dei protagonisti: Charlton Heston offre un ritratto memorabile di Gordon, incarnando l'idealismo quasi fanatico e la solitudine morale del "Chinese Gordon" con la sua tipica statura eroica, mentre Laurence Olivier è assolutamente magnetico e inquietante nei panni del Mahdi, trasformando l'antagonista in una figura complessa di fervente convinzione religiosa, in un'interpretazione di grande potenza che evita la superficialità.

martedì 2 dicembre 2025

Un dicembre da leggere


Come sempre, ho curato per il blog magazine Libri e Parole — un sito peraltro ricchissimo di notizie e curiosità su libri, scrittori e letteratura in genere — una nuova selezione di letture per accompagnare la fine di quest'anno che per molti è stato difficile. 

Trovate i miei consigli qui, assieme a un sacco di altre informazioni sfiziose assai. E ricordate, meglio una sana abbuffata di libri che una serie di pantagrueliche mangiate: non solo faremo un bel dispetto al diabolico colesterolo e alla perfida bilancia, ma forniremo invece uno stimolante nutrimento alla nostra psiche e al nostro corazon, messi a dura prova dalle notizie poco rassicuranti che ci piovono addosso un po' da tutte le parti.

Naufragio a Labuan: la nuova Serie di Sandokan affonda tra lentezza e cast sbiadito

L'annuncio di un nuovo Sandokan aveva acceso le speranze di rivedere sul piccolo schermo il fascino esotico e l'avventura indomita del personaggio di Emilio Salgari, reso immortale dal mitico sceneggiato del 1976, diretto con maestria da Sergio Sollima

Purtroppo questa riedizione si rivela un'occasione mancata, un kolossal senz'anima che tradisce l'eredità del suo predecessore, salvando solo, per un soffio, qualche elemento tecnico e una performance attoriale inaspettata.


L'unico raggio di sole: Alessandro Preziosi è Kammamuri (o forse il vero Sandokan)

L'unica, vera scintilla di interesse in questa produzione soporifera è offerta da Alessandro Preziosi nel ruolo di Yanez de Gomera (interpretato da Philippe Leroy nello storico sceneggiato di Sollima). 

Preziosi, con la sua presenza scenica intensa e lo sguardo ironico, conferisce al personaggio spessore e simpatia.


La Perla senza lucentezza: Lady Marianna

Se Preziosi è l'inattesa salvezza, l'interpretazione di Lady Marianna, la Perla di Labuan, è il punto più debole e francamente imbarazzante dell'intera serie.

L'attrice scelta per il ruolo che fu dell'incantevole Carole AndréAlanah Bloor, manca clamorosamente di quel mistero, quello charme e quello spessore aristocratico necessari per giustificare l'ossessione dei suoi pretendenti. Invece di una donna affascinante, eterea e consapevole della propria bellezza e del proprio ruolo, ci troviamo di fronte a una figura che appare sbiadita, priva di pathos e incapace di trasmettere quel fuoco interiore che dovrebbe muovere la trama. Le sue scene con il protagonista mancano totalmente di alchimia; sembrano più incontri formali che il fiorire di una passione travolgente. È una performance che svuota il cuore emotivo della storia, rendendo l'intero intreccio romantico banale e irrilevante.


I meriti tecnici: occhi pieni, mente vuota

Va riconosciuto un plauso alla cura estetica della produzione. Le scenografie sono indubbiamente sontuose e dettagliate, capaci di ricostruire un Borneo credibile e lussureggiante. Anche la fotografia è di alto livello, con colori caldi e inquadrature ampie che valorizzano gli sfondi esotici.

Tuttavia questi elementi restano una bellissima cornice per un quadro sorprendentemente vuoto. La regia è lenta, quasi soporifera, e le sequenze d'azione, quando arrivano, sono spesso faticose da seguire. Il ritmo è costantemente penalizzato, e l'avventura, che dovrebbe essere il cuore pulsante del racconto, si dissolve in dialoghi prolissi e una messa in scena ingessata.


Una serie deludente

Il nuovo Sandokan è un'operazione indubbiamente sontuosa, ma che non riesce a catturare la magia dell'originale né lo spirito di Salgari. È un peccato che, di fronte a scenari mozzafiato e a un Preziosi in stato di grazia, il risultato complessivo sia un'opera fredda e priva di carisma.

Quando il cinema aveva l’overture: perché nei vecchi film compaiono intervalli e schermo nero

Capita spesso, rivedendo un grande classico, di imbattersi in quei momenti strani e quasi solenni: schermo nero, musica orchestrale, un titolo come Intermission, oppure una lunga Overture prima ancora che inizi la prima scena. Un piccolo rito d’altri tempi.

Tra gli anni ’50 e i primi ’70 molti film venivano distribuiti come roadshow, sorta di proiezioni-evento pensate per rendere l’esperienza cinematografica simile a quella teatrale o operistica. Biglietti numerati, programma di sala, durata imponente e una certa idea di “spettacolo totale”. Per questo i film erano spesso preceduti da un’ouverture musicale, spezzati a metà da un intermezzo e chiusi da una exit music che accompagnava il pubblico verso l’uscita.

Non era solo un vezzo artistico: i kolossal dell’epoca — Ben-HurLawrence d’ArabiaMy Fair LadyWest Side Story, tanto per limitarci a qualche titolo tra i più imponenti — duravano tre ore o più, e l’intervallo serviva sia al pubblico sia ai proiezionisti, che dovevano cambiare rulli e far respirare macchine e sala. La musica a schermo nero, poi, introduceva o riprendeva i temi principali, dando al film un tono quasi operistico.


Oggi questa liturgia è scomparsa, sacrificata alla velocità delle multisale e al consumo domestico. Qualche regista nostalgico, come Tarantino con The Hateful Eight, la ripropone di tanto in tanto. Ma quei momenti sospesi, tra buio e musica, restano un ricordo di quando il cinema chiedeva tempo, attenzione e un pizzico di ritualità.

lunedì 1 dicembre 2025

Vi presento Toni Erdmann: quando la durata diventa una tortura

Vi presento Toni Erdmann (2016) è uno di quei film che sembrano fatti apposta per mettere alla prova la pazienza dello spettatore. Non date retta alle recensioni osannanti che trovate in giro: le sue quasi tre ore di durata sono un macigno che grava su ogni scena, come se la regista fosse convinta che l’indugiare all’infinito sui silenzi e sugli imbarazzi fosse di per sé profondamente significativo. In realtà, il risultato è una lentezza estenuante, che non aggiunge profondità ma solo noia.

La presunta trama, già di per sé a dir poco esile, si sfilaccia in una sequenza di episodi privi di un vero motore narrativo. L’idea di un padre eccentrico che cerca di recuperare il rapporto con la figlia avrebbe potuto funzionare, ma qui si riduce a un susseguirsi di situazioni inconcludenti, tirate troppo per le lunghe, senza un’evoluzione credibile.

Il film pretende di essere originale, pungente, “diverso”, ma finisce per somigliare a una maratona senza premio: un esercizio di stile estenuato ed estenuante, incapace di sostenere il proprio peso. Una visione che, più che divertire o commuovere, mette seriamente a repentaglio la resistenza dello spettatore.

L'America di Trump contro l'Europa, mentre Meloni applaude

A tutti quelli che ancora cercano scuse, ecco la verità: l’ultima mossa trumpiana contro l’Europa non è un semplice scambio politico, ma un ...