giovedì 18 dicembre 2025

Hollywood e il vizio della scomunica: da Chaplin a Kevin Spacey

L’ostracismo che ha colpito Kevin Spacey negli ultimi anni è diventato il simbolo di una Hollywood che ama raccontarsi come coscienza morale del mondo, ma che nella pratica reagisce spesso con riflessi pavloviani, più che con senso di giustizia. Gli studios hanno cancellato un attore dal giorno alla notte, riscrivendo film già girati, facendo sparire il suo nome dai manifesti, comportandosi come se l’eliminazione dell’opera potesse funzionare da assoluzione preventiva per le proprie ipocrisie. Non si è trattato di una riflessione collettiva sul rapporto tra arte, responsabilità e colpa, ma di una corsa a lavarsi le mani, a mettersi al riparo dal rischio reputazionale, trasformando il puritanesimo in strategia di marketing.

Il problema non è negare la gravità delle accuse o sminuire il dolore di chi denuncia, ma il meccanismo automatico della damnatio memoriae: l’idea che basti espellere un individuo dal consesso pubblico per ristabilire l’ordine morale. È un riflesso antico, che Hollywood conosce bene. Charlie Chaplin fu costretto all’esilio negli anni Cinquanta, bollato come immorale e sospetto politicamente, salvo essere riaccolto decenni dopo con un Oscar alla carriera e una standing ovation che suonava come una tardiva richiesta di perdono. Durante lo sciagurato maccartismo, Dalton Trumbo e decine di altri sceneggiatori e registi finirono nelle liste nere: lavoravano sotto pseudonimo, vincevano premi che non potevano ritirare, mentre gli studios facevano finta di non sapere, salvo poi riabilitarli quando il vento politico cambiò.


Ancora prima, negli anni Venti, la carriera di Roscoe “Fatty” Arbuckle fu distrutta da accuse sensazionalistiche rivelatesi infondate, in un clima di isteria morale alimentato dalla stampa e cavalcato dall’industria, pronta a sacrificare un idolo pur di salvare la propria immagine. Ingrid Bergman fu trattata da paria per una relazione extraconiugale: condannata dal Senato americano come “immorale”, oggi è celebrata come una delle più grandi attrici di sempre, mentre la sua “colpa” appare per quello che era, un peccato contro il perbenismo del tempo.


Il caso Spacey si inserisce in questa lunga tradizione di processi sommari, dove la complessità viene sacrificata sull’altare della rispettabilità. Hollywood non ha mai smesso di predicare virtù, ma continua a praticare l’arte dell’espulsione selettiva: prima condanna, poi – forse – riabilita, quando il rischio è passato e la memoria si è fatta più corta. È un puritanesimo che non cerca verità né giustizia, ma solo di restare dalla parte giusta della foto di gruppo. E la storia, puntualmente, si incarica di ricordarci quanto queste certezze morali siano fragili, contingenti, e spesso profondamente ipocrite.

Hollywood e il vizio della scomunica: da Chaplin a Kevin Spacey

L’ostracismo che ha colpito Kevin Spacey negli ultimi anni è diventato il simbolo di una Hollywood che ama raccontarsi come coscienza moral...