Definire Donald Trump un tycoon, come sono soliti fare specialmente i telegiornali è una forzatura, quando non un vero e proprio errore concettuale. Il termine evoca l’idea di un imprenditore geniale, capace di costruire imperi solidi grazie a visione, competenza e risultati duraturi.
Trump, al contrario, è soprattutto l’erede di un enorme patrimonio, amministrato in modo spesso disastroso e tenuto in piedi più da uno spericolato e scaltro marketing personale che non da reali successi economici.
La sua carriera è costellata di fallimenti, bancarotte a ripetizione, evasioni fiscali, operazioni opache e salvataggi ottenuti scaricando i debiti su banche, investitori e fornitori. Se oggi il suo nome è noto, lo è più come marchio mediatico che come esempio di imprenditoria virtuosa: un personaggio televisivo che ha trasformato l’autopromozione in un business, non un capitano d’industria nel senso autentico del termine.
Chiamarlo tycoon significa confondere l’immagine con la sostanza, la narrazione con i fatti. Ed è una confusione pericolosa, perché contribuisce a legittimare il mito dell’uomo di successo dove, in realtà, c’è soprattutto un’abile costruzione propagandistica, sostenuta da privilegio, impunità e da un uso spregiudicato della menzogna.
