Capita spesso, rivedendo un grande classico, di imbattersi in quei momenti strani e quasi solenni: schermo nero, musica orchestrale, un titolo come Intermission, oppure una lunga Overture prima ancora che inizi la prima scena. Un piccolo rito d’altri tempi.
Tra gli anni ’50 e i primi ’70 molti film venivano distribuiti come roadshow, sorta di proiezioni-evento pensate per rendere l’esperienza cinematografica simile a quella teatrale o operistica. Biglietti numerati, programma di sala, durata imponente e una certa idea di “spettacolo totale”. Per questo i film erano spesso preceduti da un’ouverture musicale, spezzati a metà da un intermezzo e chiusi da una exit music che accompagnava il pubblico verso l’uscita.
Non era solo un vezzo artistico: i kolossal dell’epoca — Ben-Hur, Lawrence d’Arabia, My Fair Lady, West Side Story, tanto per limitarci a qualche titolo tra i più imponenti — duravano tre ore o più, e l’intervallo serviva sia al pubblico sia ai proiezionisti, che dovevano cambiare rulli e far respirare macchine e sala. La musica a schermo nero, poi, introduceva o riprendeva i temi principali, dando al film un tono quasi operistico.
Oggi questa liturgia è scomparsa, sacrificata alla velocità delle multisale e al consumo domestico. Qualche regista nostalgico, come Tarantino con The Hateful Eight, la ripropone di tanto in tanto. Ma quei momenti sospesi, tra buio e musica, restano un ricordo di quando il cinema chiedeva tempo, attenzione e un pizzico di ritualità.
