martedì 30 settembre 2025

Una recensione

Ho letto con piacere la recensione apparsa su LibrieParole dedicata a Visioni Fantastiche: On Demand, l’antologia curata da Giorgio Sangiorgi che raccoglie racconti capaci di spaziare tra immaginazione, tecnologia e visioni del futuro.

Il pezzo mette bene in luce la varietà e la qualità delle storie, restituendo il senso di un progetto che intreccia sguardi diversi sul fantastico contemporaneo.

Tra gli autori figura anche il sottoscritto, e non posso che essere orgoglioso di far parte di questa raccolta.

👉 Qui trovate la recensione completa.



lunedì 29 settembre 2025

Killer Elite: spionaggio, azione e cast di livello

Killer Elite è uno di quei film che di certo non passeranno alla storia del cinema, ma che fanno bene il loro mestiere: intrattenere senza annoiare. Uscito in Italia nel 2012, mette insieme un cast notevole, con un granitico Jason Statham e un Clive Owen misurato a reggere quasi tutto il peso dell’azione. Che è tanta, e molto violenta, come si conviene a questo genere di pellicole.

Robert De Niro, purtroppo, si vede poco ma lascia comunque il segno con la sua consueta credibilità e bravura in un ruolo a lui congeniale, quello dell'eroe negativo stanco e stropicciato.

La trama è un mix di spionaggio, mercenari e vendette internazionali, costruita in modo abbastanza lineare ma con il giusto ritmo. Le scene d’azione sono girate senza esagerazioni digitali, con un tocco “vecchia scuola” che oggi si apprezza ancora di più. Statham fa quello che sa fare meglio, ossia picchiare duro; Owen è un antagonista credibile e intenso, e la tensione tra i due tiene in piedi la storia.

Non aspettatevi un capolavoro, ma se avete voglia di un action movie solido, con qualche momento di tensione ben orchestrato e un cast che sa il fatto suo, Killer Elite è una scelta più che valida.

sabato 27 settembre 2025

Dalla guerra mondiale a pezzi alla guerra globale

Il mondo trattiene il respiro sull’orlo dell’abisso. Le mosse di Putin hanno scatenato un’escalation che non è più soltanto guerra locale, ma minaccia di trasformarsi in un incendio globale. Ogni giorno che passa si accresce la sensazione che il fragile equilibrio planetario stia cedendo, che la catastrofe non sia più un’ipotesi remota ma una possibilità concreta.

Papa Francesco parlava di una “terza guerra mondiale a pezzi”, intuendo con lucidità profetica che i conflitti disseminati sul pianeta erano frammenti di un’unica, immane tragedia. Quelle parole oggi risuonano come un testamento amaro: i pezzi stanno lentamente ricomponendosi, saldandosi in un mosaico di fuoco e distruzione che rischia di trascinarci verso la guerra vera, totale, definitiva.

Il dramma non è solo nelle armi che si accumulano, nelle testate nucleari pronte a essere brandite come strumenti di ricatto: è nella perdita stessa dell’idea di futuro. Ogni minaccia, ogni atto di forza, ogni passo falso ci avvicina all’abisso. L’umanità sembra cieca davanti al proprio destino, come un convoglio lanciato a tutta velocità contro un muro che già si intravede.

Se la guerra a pezzi era l’anticamera, ciò che ci attende potrebbe essere l’ultima guerra che il genere umano sarà in grado di combattere. Dopo, resterebbe soltanto il silenzio delle macerie.


venerdì 26 settembre 2025

Il Web che muore (e quello che può rinascere)

Frequento il Web sin dalla sua nascita. Ho visto l’entusiasmo degli inizi, quando la rete era un territorio vergine, aperto, nato dall’intuizione geniale di Tim Berners-Lee: uno spazio pensato per condividere conoscenza, idee, cultura. Una rete in cui ciascuno poteva accedere e contribuire, in cui il sapere scorreva senza barriere, senza secondi fini, senza il rumore incessante del mercato.

Oggi, accedere a un sito equivale spesso a entrare in un bazar caotico e soffocante. Non più la porta verso il mondo, ma un muro di finestre che si accavallano, pop-up insistenti, banner lampeggianti, richieste di consenso infinite. Ogni clic è una battaglia contro stratagemmi pensati per rubare attenzione, per trasformare il visitatore in cliente, l’individuo in un dato da rivendere.


Il Web, un tempo terreno fertile per la creatività e l’incontro, è diventato un campo minato in cui l’esperienza dell’utente conta meno del profitto che si può spremere. La pubblicità, onnipresente e aggressiva, non informa più: opprime. E così lo spirito originario, quel sogno di un sapere libero e accessibile, muore lentamente sotto il peso di un’economia predatoria che tutto inghiotte.


Eppure non tutto è perduto. In angoli meno illuminati della rete resistono comunità, progetti indipendenti, siti curati con passione che mantengono viva l’idea originaria: condividere per crescere, comunicare senza secondi fini, costruire spazi digitali che non siano trappole ma piazze aperte. 


È lì che forse possiamo riconquistare il Web, ripartendo dalla semplicità, dal rispetto e dalla fiducia. Forse il modo migliore per onorare il sogno di Berners-Lee è proprio questo: continuare a credere che un’altra rete sia ancora possibile.






giovedì 25 settembre 2025

Who Is The Sky?, David Byrne torna a sorprendere

È uscito Who Is The Sky?, il nuovo album di David ByrneDopo “American Utopia” del 2018, Byrne torna con un disco che suona personale, curioso, e allo stesso tempo espanso: non è semplice “musica da ascoltare”, è un invito a guardare il cielo (o a chiedersi Who Is The Sky?) e a perderci dentro le idee, le pause, i dettagli che altrimenti ignoriamo.

La copertina lo mostra in una posa che quasi lo cela, come se anche lui stesse cercando il perché, non solo il cosa: simbolica, enigmatica.

mercoledì 24 settembre 2025

Il caos della musica in streaming

Chiunque usi un servizio di musica in streaming lo sa bene: i cataloghi digitali sono tutt’altro che ordinati. Album duplicati o triplicati, edizioni “deluxe” e “expanded” spesso mescolate senza criterio, brani improvvisamente non disponibili per motivi oscuri di copyright, canzoni che spariscono da un giorno all’altro come se non fossero mai esistite.

Il risultato è un’esperienza frustrante, ben lontana dall’idea di avere l’intera storia della musica a portata di click. Anzi, a volte sembra di aggirarsi in un grande magazzino in disordine, dove trovare un disco nella versione “giusta” diventa un’impresa.

E se non bastasse, ci sono poi i danni alle librerie personali: Apple Music in particolare è stata spesso accusata - non a torto, è capitato anche a me - di modificare, sostituire o addirittura cancellare file locali con versioni prese dal suo catalogo, spesso peggiori o incomplete. Un comportamento che mette in discussione il concetto stesso di “collezione musicale personale”, trasformata in un terreno instabile che non appartiene davvero più all’ascoltatore.

Lo streaming ha portato enormi vantaggi in termini di accessibilità, ma il prezzo da pagare sembra essere la perdita di controllo, sia sui contenuti che sulla memoria musicale di ciascuno di noi. Una specie di caos organizzato, dove a guadagnarci non è certo l’ascoltatore.

Trump all’ONU: il delirio di un leader fuori controllo

Il discorso pronunciato ieri da un sempre più lunatico e scatenato Donald Trump all’ONU ha avuto toni talmente deliranti da lasciare attoniti non solo i diplomatici presenti, ma chiunque abbia seguito le sue parole. 


Si è trattato di un susseguirsi di minacce apocalittiche, accuse contro gli alleati europei, negazioni del cambiamento climatico e un’autocensura di autocelebrazione ai limiti del grottesco. 


Il presidente si è dipinto come unico salvatore, capace di “risolvere guerre che l’ONU non ha nemmeno tentato di affrontare”, salvo poi demolire le stesse istituzioni internazionali in cui stava parlando, accusandole di inefficacia e di essere complici di un complotto globale.


Quel che colpisce non è solo la durezza del linguaggio, ma la visione paranoica che emerge dal discorso: il mondo visto come una minaccia costante, l’energia verde come una truffa, la scienza come nemico, gli altri Paesi come avversari da umiliare. 


Non c’è traccia di diplomazia o di apertura al dialogo, ma soltanto estremismo verbale e negazione della realtà. In tutto questo risalta una componente grandiosa e narcisistica: l’idea che soltanto lui abbia la verità, che tutti gli altri siano corrotti o incapaci, che il suo giudizio debba valere come unica bussola per l’umanità.


Di fronte a una simile performance, è inevitabile domandarsi se non siamo oltre i confini della semplice retorica politica. Un linguaggio tanto distaccato dai fatti e così intriso di ossessioni personali non può non sollevare dubbi sulla lucidità di chi lo pronuncia. 


È difficile non leggere questo intervento come la conferma della gravità del suo stato mentale: un leader che vive di deliri di onnipotenza, di visioni complottiste e di minacce contro chiunque lo contraddica rappresenta un pericolo non solo per gli Stati Uniti, ma per l’intero ordine internazionale.


ElleKappa su Repubblica


martedì 23 settembre 2025

Il vuoto dei talent show

I talent show vengono spesso presentati come fucine di talento, palcoscenici democratici dove chiunque può emergere. In realtà sono il trionfo della finzione, del format preconfezionato, dell’emozione a comando. Non scoprono nulla di nuovo: bruciano ragazzi e ragazze illudendoli con luci e applausi, salvo dimenticarli il giorno dopo.

Dietro le quinte, il talento conta meno del personaggio televisivo, della storia strappalacrime o del colpo di scena costruito ad arte. Il risultato? Un grande spettacolo di plastica, che si nutre della voglia di fama immediata e dell’idea tossica che basti un provino per cambiare la propria vita.

Il pubblico applaude, ride e piange secondo copione, a comando, mentre la musica e l’arte vengono ridotte a merce usa e getta, misurata a colpi di televoto e share. A conti fatti, i talent non fanno emergere veri artisti, ma solo meteore, funzionali al consumo rapido e all’oblio televisivo.

Forse è tempo di smettere di chiamarli “talent”: la parola talento merita rispetto.

Ritorno a Rimini: la città, il libro e la malinconia


Qualche giorno fa, spinto da una forte nostalgia, sono tornato a Rimini, la città balneare che ha fatto da sfondo a tante estati della mia giovinezza, back in the mighty Eighties. Purtroppo, devo ammetterlo, la visita è stata deludente.

Il ricordo brillante che avevo di una certa atmosfera e vitalità si è scontrato con una realtà che, ai miei occhi, sembrava sbiadita e forse un po' smarrita. È un peccato quando i luoghi del cuore non reggono il confronto con la memoria.

E così cosa ho fatto? Per ritrovare l'essenza, il mood irrequieto e vibrante di quella costa e di quegli anni, ho tirato fuori dallo scaffale un classico che per me è sinonimo di quell'ambiente: Rimini del compianto e ahimè poco ricordato Pier Vittorio Tondelli.

Rileggere questo libro, dopo aver rivisto la città, è un'esperienza strana, quasi catartica. Tondelli ha saputo catturare perfettamente l'anima di quel luogo e di quell'epoca in un modo che risuona ancora oggi.

Ho scritto una recensione/riflessione sul romanzo e come si ponga con la Rimini che ho visitato.

Pier Vittorio Tondelli





lunedì 22 settembre 2025

Delitto e castigo: un classico che ci riguarda da vicino

Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij è uno di quei libri che non si lasciano mai archiviare tra le letture “importanti” e basta.

Ogni volta che lo riprendo in mano, resto colpito da quanto sia vicino al nostro presente: la miseria che diventa ingiustizia sociale, la solitudine delle città, il peso schiacciante del senso di colpa, ma anche la possibilità — fragile, ma reale — di riscatto. La storia di Raskol’nikov, con le sue contraddizioni, i suoi errori e il suo tormento interiore, è uno specchio che ci costringe a guardarci dentro.

Non è solo un classico “da studiare”, ma un romanzo vivo, che ancora ci mette alla prova e ci chiede di interrogarci su cosa significhi davvero essere liberi, responsabili, umani.

Qui trovate la mia recensione completa.

La schiavitù delle notifiche: quando i social ci rubano la mente

Siamo diventati prigionieri di bip, vibrazioni e cerchietti rossi. Ogni notifica è un piccolo richiamo, studiato a tavolino per catturare l’attenzione e spingerci a controllare lo schermo “solo un attimo”. Ma quel momento diventa un meccanismo compulsivo, che ci lega ai social in una spirale difficile da spezzare.

La comunità scientifica da tempo mette in guardia: ridurre o disattivare le notifiche porta a benefici concreti sul benessere psicologico, diminuendo solitudine e sintomi depressivi. La neuroscienza conferma che le interazioni ripetute con le app sociali attivano i circuiti dopaminergici, cioè gli stessi sistemi legati alla ricompensa e alla dipendenza. Non è quindi solo questione di volontà: si tratta di un vero condizionamento biologico.

Sul piano cognitivo, le notifiche frammentano la nostra attenzione, generando cali di produttività e sintomi paragonabili a quelli osservati nei disturbi dell’attenzione. Un prezzo alto da pagare per un gesto che sembra innocuo.

Le ricerche sugli adolescenti sono ancora più allarmanti: non è tanto il tempo passato online a fare la differenza, quanto l’uso compulsivo e “addictive” dei social, associato a un aumento del rischio di depressione, ideazione suicidaria e isolamento.

Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di riconoscerne i rischi quando diventa ossessione. La ricetta? Disattivare le notifiche non essenziali, stabilire momenti senza schermo, e soprattutto smascherare le “ricompense” artificiali che le piattaforme ci offrono. Solo così possiamo riprenderci tempo, concentrazione e, in fondo, un po’ di libertà.


domenica 21 settembre 2025

Trump vs. freedom: the assault on satire and journalism


Donald Trump has never tolerated criticism — let alone satire. Now, back in the White House, he’s turned annoyance into outright repression. No longer just angry tweets or empty lawsuits: this is an orchestrated campaign to muzzle free speech, silence independent voices, and crush the press, comedians, and artists who dare mock him.

The evidence is piling up. Jimmy Kimmel, one of America’s most popular late-night hosts, was yanked off the air by ABC after mocking a conservative activist. Even worse, the FCC threatened to strip broadcasters of their licenses if they aired content “negative” toward Trump. That’s not regulation—it’s political blackmail.

Trump has also launched multi-billion-dollar defamation suits against historic outlets like The New York Times, demanding $15 billion in damages. These suits aren’t about winning in court — they’re about intimidation, a chilling message to every journalist: investigate at your own peril.

And then the threats. Trump openly vowed to jail reporters who refuse to reveal their sources, shredding one of the cornerstones of press freedom. Under his watch, the Justice Department secretly seized emails and phone records from New York Times reporter Ali Watkins, and whistleblowers like Reality Winner were prosecuted under the draconian Espionage Act — simply for exposing inconvenient truths.

This is no longer just Trump’s inflammatory rhetoric or propaganda theater. It’s the new reality: an America where making a joke about the president is treated like an act of treason.

Satire has always been a release valve, a stress test for democracy. When a government decides to crush it, it means one thing: fear. Fear of truth, fear of laughter that exposes lies, fear of citizens who won’t bow their heads.

This fight is not about comedians or columnists. It’s about everyone. Because without a free press and the right to satire, a nation is no longer free. It’s a cage.

The real question: how long will Americans — and the West — stand by while Trump tightens the gag?


sabato 20 settembre 2025

Bavagli e manganelli: la nuova America di Trump

Donald Trump non ha mai sopportato la critica, tantomeno la satira. Oggi, tornato alla Casa Bianca, ha deciso di trasformare il fastidio in repressione. Non è più questione di tweet furiosi o querele velleitarie: siamo di fronte a una campagna organizzata per mettere a tacere la libera informazione e ridurre al silenzio voci indipendenti, giornali, comici, artisti.

I segnali sono sotto gli occhi di tutti. Jimmy Kimmel, uno dei comici più seguiti d’America, è stato sospeso da ABC dopo alcune battute su un noto attivista conservatore. Non solo: la FCC ha minacciato di revocare licenze alle emittenti colpevoli di trasmettere contenuti “negativi” per l’amministrazione, costringendo i network a piegarsi al ricatto politico. È satira, non terrorismo: eppure viene trattata come fosse un crimine.


Nel frattempo, Trump ha aperto cause miliardarie per diffamazione contro testate storiche come il New York Times, chiedendo risarcimenti da 15 miliardi di dollari. Non importa che siano destinate a fallire in tribunale: l’obiettivo è uno solo, intimidire, far capire ai giornalisti che chi osa investigare rischia di finire stritolato da una macchina legale senza precedenti.


Non basta. Lo stesso Trump ha minacciato apertamente di imprigionare reporter che si rifiutino di rivelare le loro fonti, trasformando un principio cardine della libertà di stampa in un reato da punire. E già in passato il Dipartimento di Giustizia aveva spiato email e telefonate di cronisti come Ali Watkins del New York Times, o perseguitato whistleblower come Reality Winner, colpevoli solo di aver fatto emergere informazioni scomode.


Questa non è più retorica incendiaria o un gioco di propaganda. È la realtà di un’America che rischia di diventare un Paese in cui ridere del potere è pericoloso quanto contestarlo in piazza.


La satira è sempre stata una valvola di libertà, una cartina tornasole della democrazia. Quando un governo decide di colpirla, significa che ha paura. Paura della verità, paura della leggerezza che smaschera la menzogna, paura di chi non abbassa la testa.


Quella che si sta combattendo oggi non è una battaglia di cabarettisti o di editorialisti: è una battaglia che riguarda tutti. Perché senza libera informazione e senza diritto alla satira, un Paese non è più libero. È una gabbia.


La domanda è: fino a che punto il popolo americano – e con lui l’Occidente – accetterà che il bavaglio diventi la norma?

giovedì 18 settembre 2025

L’ultima edicola

Vedere un’edicola che chiude è ormai diventata un’abitudine amara. Serrande abbassate, cartelli “cedesi attività”, edicole che spariscono dalle piazze e dalle strade. Non solo nelle grandi città, dove perfino le vie centrali perdono gli amati chioschi, ma soprattutto nei piccoli paesi, che restano del tutto sprovvisti di un punto vendita di giornali e riviste.

Penso soprattutto ai lettori anziani, forse gli unici rimasti davvero affezionati alla carta stampata: persone che avevano fatto dell’acquisto del giornale un rito quotidiano, un momento di socialità, un contatto umano. Ora si trovano semplicemente impossibilitati a comprare quello che amavano. E, in molti casi, a rinunciare per sempre.

E non si trattava solo di giornali: quante edicole vendevano anche libri, piccoli oggetti, proposte che aprivano spiragli di cultura accessibile e vicina! Con la loro chiusura scompare anche questo.

La responsabilità non è soltanto del tempo che cambia e del digitale che avanza (peraltro a fatica, visto che gli abbonamenti e le vendite digitali arrancano, almeno nel nostro paese): editori e distributori hanno imposto condizioni insostenibili, scaricando sui rivenditori costi e pacchi di invenduto. Era inevitabile che, prima o poi, le edicole non reggessero più.

Resta il vuoto, quel senso di perdita che accompagna ogni serranda abbassata. E la consapevolezza che l’ultima edicola non è poi così lontana.

mercoledì 17 settembre 2025

Addio a Robert Redford, leggenda del cinema e voce libera dell’America

E così se n'è andato anche Robert Redford, icona del cinema americano e figura di rara integrità. Attore e regista, ha lasciato un segno indelebile con film indimenticabili come Butch Cassidy, La stangata (in coppia con l'amico Paul Newman), Il grande Gatsby, I tre giorni del Condor, La mia Africa e Gente comune, che gli valse l’Oscar alla regia.

Ma Redford non è stato solo una leggenda del grande schermo: con il Sundance Film Festival ha dato voce a generazioni di autori indipendenti, creando uno spazio libero e vitale per il cinema più coraggioso e innovativo. 

Da sempre impegnato nelle battaglie civili e ambientali, ha fatto sentire la sua voce contro le ingiustizie e non ha mai nascosto il suo profondo disappunto per Trump e per quella visione distorta e pericolosa dell’America da lui incarnata. Interessante oggi (ri)vedere Il Candidato, ottimo film del 1972 interpretato da Redford, che descrive in modo disincantato e realistico una campagna presidenziale.

È stato un grande artista, ma soprattutto un uomo che ha saputo unire talento, impegno e coscienza civile.


martedì 16 settembre 2025

VrumVrum, PotPot: il ritorno di Eronda

Segnalo con piacere un’uscita davvero speciale per chi ama l’umorismo grafico e le invenzioni visive fuori dagli schemi: VrumVrum, PotPot di Mario De Donà, detto Eronda, edito da Graphe.it.

Il libro raccoglie decenni di lavoro di un autore che meriterebbe di essere riscoperto: nato a Treviso nel 1924, Eronda è stato illustratore, grafico, artista visivo, capace di mescolare l’ironia con il tratto essenziale, il surreale con la quotidianità. Le sue strisce, collage e onomatopee motoristiche – quelle che danno il titolo al volume – sono lampi di immaginazione ancora oggi sorprendentemente freschi.

A rendere ancora più preziosa l’edizione, la curatela di Erik Balzaretti e una postfazione di Gianni Brunoro che aiutano a contestualizzare l’opera e il percorso di un artista poco noto al grande pubblico ma fondamentale nel panorama dell’umorismo grafico italiano del Novecento.

VrumVrum, PotPot non è soltanto una raccolta: è un piccolo viaggio nel tempo, una testimonianza del gusto e della modernità di un linguaggio che ha anticipato molte tendenze. Ed è anche un invito a guardare con occhi diversi il segno tracciato a mano, capace di raccontare più di tante parole.

📖 Maggiori dettagli qui: link al libro.

lunedì 15 settembre 2025

Affari Tuoi: karaoke di periferia travestito da prime time

Affari Tuoi, il programma di Stefano De Martino in onda su Rai 1, non è più un game show, ma un imbarazzante karaoke di periferia: concorrenti costretti a ballare come in una sagra di paese, mentre la regia inanella una sequenza clientelare di brani, troppi e scelti senza criterio, solo per regalare patetici minuti di pseudo-divertimento. 

Il risultato? Un’atmosfera da chiassosa balera televisiva, che rasenta il trash puro. Non stupisce che gli ascolti siano in calo evidente: il pubblico, a differenza degli autori, sembra aver capito che la misura è colma.

sabato 13 settembre 2025

Sangue sulle mani di Trump: l’assassinio di Charlie Kirk

L’America piange l’omicidio di Charlie Kirk, influencer e attivista del movimento Maga e amico-consigliere di Donald Trump. Un delitto che non nasce nel vuoto, ma dentro un clima avvelenato, incandescente, reso possibile – e forse inevitabile – da anni di retorica tossica, bugie e odio alimentati dal "presidente pazzo" Donald Trump.

Non possiamo far finta che sia solo un fatto di cronaca nera. Non possiamo ridurlo a un gesto isolato, a un colpo di follia. Perché in questo Paese nulla è più isolato: ogni parola urlata, ogni insulto brandito da un pulpito politico, ogni invito implicito alla violenza sedimenta, incita, prepara il terreno. Trump questo terreno lo ha fertilizzato a dovere, con menzogne reiterate, con il culto della forza, con la sistematica delegittimazione delle istituzioni, con l’eroizzazione dell’odio.

Quando un presidente – o un ex presidente, non importa – parla costantemente di nemici, di traditori, di “America vera” contrapposta a quella “marcia”, c’è sempre qualcuno pronto a trasformare quelle parole in azione. E quell’azione oggi si chiama omicidio. Omicidio di Kirk, ma in realtà pugnalata al cuore della democrazia.

Trump non ha sparato. Trump non era lì. Ma Trump c’era, eccome: nella mente dell’assassino, nei social intossicati, nelle piazze virtuali incendiate dalla sua voce. C’era in ogni slogan velenoso, in ogni appello alla “guerra culturale”, in ogni occhiolino strizzato alla violenza come legittima espressione politica.

Attribuire almeno in parte la responsabilità a Trump non è un atto politico: è un dovere morale. Perché se non riconosciamo le cause profonde, se non indichiamo le mani sporche che hanno passato l’arma, non faremo altro che attendere il prossimo Kirk.

L’America deve scegliere: continuare a convivere con questo demagogo che semina morte a distanza, o ritrovare la voce di una democrazia che non accetta di essere sepolta sotto le macerie dell’odio.

Una catastrofe chiamata Queer

Ci sono film che nascono sbagliati e che neanche un bravo attore riesce a salvare. Queer, tratto dal romanzo postumo di William S. Burroughs, è purtroppo uno di questi. L’operazione, ambiziosa sulla carta, si rivela sullo schermo un disastro di noia e pretenziosità.

La regia di Luca Guadagnino affoga, come del resto spesso accade nei film diretti dal regista palermitano, in un’estetica manierata, gelida, incapace di restituire l’energia sporca e viscerale dell’opera originale. 


La trama si trascina senza ritmo, ingabbiata in dialoghi vacui e in sequenze che sembrano messe lì più per compiacere un pubblico festivaliero che per raccontare davvero qualcosa. Il risultato è un film stanco, svuotato, che si prende tremendamente sul serio senza averne i contenuti.


Eppure, in mezzo a questo naufragio, brilla un faro: Daniel Craig. La sua interpretazione è magnetica, intensa, capace di dare spessore a un personaggio che la sceneggiatura riduce a macchietta. L'ex James Bond con sguardi, pause e un controllo assoluto dei toni, regala una prova straordinaria, l’unico motivo per cui tentare di resistere fino ai titoli di coda.


Peccato che il resto sia solo un involucro vuoto: un film che si dimentica subito, se non per la rabbia di aver sprecato tempo e per la compassione verso l’attore che, da solo, non poteva salvare un’opera già condannata al fallimento.

venerdì 12 settembre 2025

I re della scena: una commedia leggera con il carisma di Fanny Ardant

I re della scena (Les rois de la piste, 2023) è una commedia franco-belga diretta da Thierry Klifa che ci porta dentro le disavventure di una famiglia di truffatori improvvisati. Al centro troviamo una divertita Fanny Ardant nei panni della scaltra madre Rachel, affiancata da Mathieu Kassovitz, Nicolas Duvauchelle, Laetitia Dosch, Ben Attal e Michel Vuillermoz: un cast che, per energia e presenza scenica, è la vera attrazione del film.

La storia non brilla per originalità e la regia di Klifa è piuttosto tradizionale, ma il film sa farsi guardare. Qualche battuta ben piazzata, il gioco di sguardi tra i personaggi e un buon ritmo complessivo lo rendono una visione leggera e piacevole. 

Non aspettatevi un capolavoro, né colpi di scena memorabili: il film vive soprattutto della sua ironia e della chimica tra gli attori, che riescono a mascherare i punti deboli della trama.

Insomma, I re della scena non è un certo una pellicola destinata a lasciare il segno, ma una commedia che intrattiene con garbo e che alla fine regala più sorrisi di quanto ci si potesse aspettare.

Il business della rabbia sui social

C’è un filo nero che attraversa i social, e Facebook più di tutti: la violenza verbale . Ogni giorno assistiamo a una marea di insulti, sar...