L’America piange l’omicidio di Charlie Kirk, influencer e attivista del movimento Maga e amico-consigliere di Donald Trump. Un delitto che non nasce nel vuoto, ma dentro un clima avvelenato, incandescente, reso possibile – e forse inevitabile – da anni di retorica tossica, bugie e odio alimentati dal "presidente pazzo" Donald Trump.
Non possiamo far finta che sia solo un fatto di cronaca nera. Non possiamo ridurlo a un gesto isolato, a un colpo di follia. Perché in questo Paese nulla è più isolato: ogni parola urlata, ogni insulto brandito da un pulpito politico, ogni invito implicito alla violenza sedimenta, incita, prepara il terreno. Trump questo terreno lo ha fertilizzato a dovere, con menzogne reiterate, con il culto della forza, con la sistematica delegittimazione delle istituzioni, con l’eroizzazione dell’odio.
Quando un presidente – o un ex presidente, non importa – parla costantemente di nemici, di traditori, di “America vera” contrapposta a quella “marcia”, c’è sempre qualcuno pronto a trasformare quelle parole in azione. E quell’azione oggi si chiama omicidio. Omicidio di Kirk, ma in realtà pugnalata al cuore della democrazia.
Trump non ha sparato. Trump non era lì. Ma Trump c’era, eccome: nella mente dell’assassino, nei social intossicati, nelle piazze virtuali incendiate dalla sua voce. C’era in ogni slogan velenoso, in ogni appello alla “guerra culturale”, in ogni occhiolino strizzato alla violenza come legittima espressione politica.
Attribuire almeno in parte la responsabilità a Trump non è un atto politico: è un dovere morale. Perché se non riconosciamo le cause profonde, se non indichiamo le mani sporche che hanno passato l’arma, non faremo altro che attendere il prossimo Kirk.
L’America deve scegliere: continuare a convivere con questo demagogo che semina morte a distanza, o ritrovare la voce di una democrazia che non accetta di essere sepolta sotto le macerie dell’odio.