La notizia della scomparsa del mitico Ozzy Osbourne segna davvero la fine di un’epoca. La sua voce stridula e inconfondibile, la sua presenza scenica imprevedibile e la sua storia tormentata ma leggendaria hanno reso Ozzy il simbolo stesso dell’heavy metal. In questo momento, riascoltare 13, l’ultimo album in studio dei Black Sabbath, assume un significato ancora più intenso: è il testamento sonoro di una delle band più influenti di sempre, e l’ultima volta in cui Ozzy ha prestato la voce alla creatura che aveva contribuito a generare più di quarant’anni prima.
La buona notizia, scrivevamo all’epoca, era che i Black Sabbath, da molti considerati il gruppo heavy metal per eccellenza, erano tornati. La brutta era l’annullamento della data italiana prevista a Milano, ma oggi tutto questo sembra lontano e secondario. Quello che resta è la musica, e 13 è un disco che vale ancora la pena ascoltare, magari “a ciclo continuo”, come faceva il sottoscritto nelle settimane successive all’uscita.
Ma veniamo all’album, la cui uscita nel 2013 era attesissima. Annunciato ufficialmente il 13 gennaio, fu preceduto il 19 aprile dalla pubblicazione di un singolo, God is Dead?, che, al di là di certe assonanze con il nostro Guccini, confermava ai fan che la magia della band era ancora viva: suoni possenti, atmosfere epiche, durata del brano “non convenzionale”. Seguirono altri singoli, come End of the Beginning, eseguito live all’interno della serie CSI, che sembrava arrivare da una finestra spazio-temporale rimasta socchiusa dai tempi di Paranoid e Master of Reality.
Il resto dell’album è una delizia per le orecchie degli amanti del suono Sabbath: cupo, denso, minaccioso, fatto di improvvise esplosioni e momenti di inquietante sospensione. La chitarra possente di Tony Iommi – sopravvissuto anche a una grave malattia – incanta e graffia; la batteria di Brad Wilk (Rage Against The Machine) si adatta perfettamente al contesto dark e ossessivo della band; e perfino quel vecchio satanasso di Ozzy Osbourne, il più scapestrato dei tre superstiti, canta con misura e vigore, come in pochi si aspettavano. A dimostrazione di quanto il disco abbia colpito nel segno, 13 è volato in cima alle classifiche britanniche e statunitensi, 43 anni dopo Paranoid.
L’aspetto che più colpisce è la qualità complessiva dell’opera: 13 non è solo un revival nostalgico, ma un disco vero, ispirato e potente. Il merito va anche al produttore Rick Rubin, barbuto guru del rock (da Johnny Cash ai Metallica), capace di tenere insieme personalità forti e rendere attuale un suono leggendario.
Qualcuno ha detto che 13 è un disco dei Black Sabbath “che fanno i Black Sabbath”. E meno male, verrebbe da dire: chi altri se non loro potevano permettersi di essere se stessi fino in fondo, anche all’ultimo giro di giostra?
Oggi, con Ozzy che se n'è andato davvero, 13 resta come il suo ultimo canto nel buio, tra dannazione e redenzione. Un addio all’altezza del suo mito.
