I talent show vengono spesso presentati come fucine di talento, palcoscenici democratici dove chiunque può emergere. In realtà sono il trionfo della finzione, del format preconfezionato, dell’emozione a comando. Non scoprono nulla di nuovo: bruciano ragazzi e ragazze illudendoli con luci e applausi, salvo dimenticarli il giorno dopo.
Dietro le quinte, il talento conta meno del personaggio televisivo, della storia strappalacrime o del colpo di scena costruito ad arte. Il risultato? Un grande spettacolo di plastica, che si nutre della voglia di fama immediata e dell’idea tossica che basti un provino per cambiare la propria vita.
Il pubblico applaude, ride e piange secondo copione, a comando, mentre la musica e l’arte vengono ridotte a merce usa e getta, misurata a colpi di televoto e share. A conti fatti, i talent non fanno emergere veri artisti, ma solo meteore, funzionali al consumo rapido e all’oblio televisivo.
Forse è tempo di smettere di chiamarli “talent”: la parola talento merita rispetto.