Frequento il Web sin dalla sua nascita. Ho visto l’entusiasmo degli inizi, quando la rete era un territorio vergine, aperto, nato dall’intuizione geniale di Tim Berners-Lee: uno spazio pensato per condividere conoscenza, idee, cultura. Una rete in cui ciascuno poteva accedere e contribuire, in cui il sapere scorreva senza barriere, senza secondi fini, senza il rumore incessante del mercato.
Oggi, accedere a un sito equivale spesso a entrare in un bazar caotico e soffocante. Non più la porta verso il mondo, ma un muro di finestre che si accavallano, pop-up insistenti, banner lampeggianti, richieste di consenso infinite. Ogni clic è una battaglia contro stratagemmi pensati per rubare attenzione, per trasformare il visitatore in cliente, l’individuo in un dato da rivendere.
Il Web, un tempo terreno fertile per la creatività e l’incontro, è diventato un campo minato in cui l’esperienza dell’utente conta meno del profitto che si può spremere. La pubblicità, onnipresente e aggressiva, non informa più: opprime. E così lo spirito originario, quel sogno di un sapere libero e accessibile, muore lentamente sotto il peso di un’economia predatoria che tutto inghiotte.
Eppure non tutto è perduto. In angoli meno illuminati della rete resistono comunità, progetti indipendenti, siti curati con passione che mantengono viva l’idea originaria: condividere per crescere, comunicare senza secondi fini, costruire spazi digitali che non siano trappole ma piazze aperte.
È lì che forse possiamo riconquistare il Web, ripartendo dalla semplicità, dal rispetto e dalla fiducia. Forse il modo migliore per onorare il sogno di Berners-Lee è proprio questo: continuare a credere che un’altra rete sia ancora possibile.