venerdì 14 novembre 2025

Trump, inchiodato dalle email di Epstein, cerca un diversivo

I have met some very bad people, none as bad as Trump. Not one decent cell in his body… so yes, dangerous”

Jeffrey Epstein

La recente manovra di Donald Trump — ovvero chiedere al Department of Justice di indagare sui rapporti tra Jeffrey Epstein e gli esponenti del partito democratico (in particolare Bill Clinton) — non sembra affatto una mossa strategica volta a far luce sulla verità, ma piuttosto un disperato diversivo: un pallido, disperato tentativo di distogliere l’attenzione dal suo diretto coinvolgimento e dalla pubblicazione delle email compromettenti che lo riguardano.

Quando Trump dichiara che Epstein “era democratico” e che dunque l’accusa pesa più su quei “colletti blu” del Partito Democratico, è evidente che sta cercando di trasformare una crisi personale in un attacco politico partigiano. Ma fingere che la questione riguardi solo i “democratici” mentre egli stesso è implicato — nei documenti emerge che Epstein affermava che Trump «sapeva delle ragazze» e che «ha passato ore nella mia casa con [una della vittime]» — non è solo fuorviante: è anche un segnale di panico.

La tattica è classica: spostare il ragionamento dal merito — “Qual è stato il mio ruolo in tutto questo?” — al contorno: “guardate l’altro schieramento, sono loro i colpevoli!”. Ma una strategia del genere funziona solo se l’opinione pubblica è disposta a ignorare il fatto che Trump ha legami non solo superficiali con Epstein (società, club, frequentazioni) ma che le prove stanno emergendo in modo sistematico.

Insomma, come al solito Trump è più preoccupato di salvare se stesso che di «far luce» su niente. Se davvero avesse fiducia nella propria pulizia, non avrebbe bisogno di un attacco preventivo contro Clinton & company per giustificarsi. Invece la mossa appare come una dichiarazione di debolezza: «Se mi mettono all’angolo, io attacco il tuo campo».

E ancora più grave: giocare con la giustizia, ordinando indagini come se fosse una pedina politica, trasformando la richiesta di trasparenza in un atto strumentale. Il rischio è che la verità venga sepolta sotto slogan e accuse reciproche, mentre lui ridisegna l’arena come «noi contro loro» per distrarre dall’unico nodo che conta: il suo ruolo.

In definitiva, quella che viene presentata come una «grande rivelazione contro i democratici» è in realtà la manifestazione di un uomo che sente il muro chiudersi. Non è coraggio: è allarme. E non è giustizia: è difesa. E quando l’accusato cambia campo di battaglia, l’unica cosa che sta cercando è comprare tempo.



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