Con la scomparsa di Jeff Beck, nel gennaio 2023, il rock ha perso non solo un chitarrista immenso, ma un artista irripetibile. Uno di quelli che non si sono mai adagiati, mai ripetuti, mai piegati alle regole del mercato o alla nostalgia del passato. Beck ha sempre preferito rischiare, cambiare pelle, stupire.
Quando uscì nel 2016 quasi in sordina, Loud Hailer fu accolto con una certa sorpresa. Dopo il raffinato Emotion & Commotion del 2010, un disco orchestrale e contemplativo, Beck tornava improvvisamente elettrico, ruvido, provocatorio. L’apertura con The Revolution Will Be Televised è un pugno nello stomaco: riff taglienti, groove martellante, un suono sporco e vivo, come se volesse gridare al mondo che la rivoluzione, quella vera, è ancora possibile.
Il disco nel suo insieme è un viaggio teso e inquieto, pieno di energia e contrasti. Ci sono momenti di pura potenza (Live in the Dark, Pull It), ma anche brani più intimi e malinconici come Shame, impreziosita dalla voce intensa di Rosie Bones. Insieme a lei e alla chitarrista Carmen Vandenberg — due giovani musiciste inglesi che Beck volle fortemente al suo fianco — crea un dialogo tra generazioni, un passaggio di testimone che oggi suona ancora più toccante.
Musicalmente, Loud Hailer è un mix audace di hard rock, funky ed elettronica, con un’anima politica e disillusa che ricorda certe atmosfere di Roger Waters, con cui Beck aveva collaborato in passato. È un disco che non cerca di piacere a tutti, e forse proprio per questo convince: è sincero, diretto, spigoloso, a tratti persino scomodo.
Ascoltarlo oggi significa ritrovare tutto ciò che ha reso Jeff Beck unico: la curiosità, il coraggio, la capacità di reinventarsi senza mai tradirsi. La sua chitarra non urla per vanità, ma per necessità. In ogni nota si sente la libertà di chi non deve dimostrare più nulla, ma ha ancora qualcosa da dire — e lo dice con una forza che pochi, anche da giovani, sanno avere.
Forse Loud Hailer non è il suo disco più memorabile, ma è sicuramente uno dei più vivi, dei più veri. È il ritratto di un artista che, fino all’ultimo, ha guardato avanti, rifiutando ogni compromesso. E oggi, nel silenzio che la sua assenza ha lasciato, quelle chitarre che sembravano urla diventano un addio pieno di dignità e potenza.
Un piccolo motivo d’orgoglio italiano: alla produzione troviamo Filippo Cimatti, con Davide Sollazzi alla batteria e Giovanni Pallotti al basso.

