Shazam! Furia degli dei porta avanti lo spirito scanzonato e ironico del primo film, arricchendolo con un buon mix di umorismo, azione e un pizzico di maturità in più per il giovane Billy Batson e la sua famiglia adottiva di riluttanti supereroi.
La pellicola riesce a dosare discretamente i momenti comici con le sequenze d’azione, mantenendo un ritmo vivace che lo rende godibile e leggero, a patto di abbandonarsi al versante "teen" della visione.
Nonostante alcuni evidenti difetti, come la sceneggiatura non sempre brillante e qualche clichè tipico del genere, la simpatia dei personaggi e l’evoluzione del protagonista riescono a compensare tali carenze.
Shazam! Furia degli dei è una buona scelta per chi cerca intrattenimento spensierato e un film di supereroi che non si prenda troppo sul serio. Il che non è poco, in questi tempi così cupi e angoscianti.
La docu-serie Supereroi: la storia della DC Comics, disponibile sulla piattaforma Now rappresenta un’affascinante immersione nell’evoluzione di una delle case editrici più influenti nel panorama fumettistico.
Attraverso interviste esclusive e materiali d’archivio, la serie esplora l’impatto culturale dei supereroi DC e la loro trasformazione nel corso dei decenni, con un occhio attento alle loro molteplici versioni cinematografiche.
È un documentario in 3 puntate ben realizzato, che non solo celebra i personaggi iconici della DC come Superman e Batman, ma offre anche uno sguardo approfondito sulle dinamiche editoriali e sociali che hanno contribuito al loro successo.
In realtà in tal senso ricostruisce l’intera storia della casa, storica rivale della Marvel, con il pregio di contestualizzarla nel corso dei decenni, tenendo altresì conto dei mutamenti storici e sociali. Un documentario interessante e ben fatto, arricchito da interviste ad autori famosi del calibro di Jim Lee, Neal Adams, Neil Gaiman, Frank Miller e molti altri.
Il mondo dietro di te, film prodotto da Netflix e dai coniugi Obama (!), parte con una premessa intrigante, ma si rivela ben presto un tentativo fallito di thriller psicologico apocalittico.
La tensione che dovrebbe crescere tra i protagonisti si disperde in dialoghi privi di spessore e in una narrazione lenta e confusionaria. Le svolte narrative appaiono forzate, mentre il finale lascia con un senso di vuoto e incompiutezza.
Nonostante un cast di talento, costituito da Julia Roberts, Ethan Hawke, Oscar Maharshala Ali e Kevin Bacon, il regista Sam Esmail, reduce dal successo di Mr. Robot, una delle serie TV più innovative degli ultimi anni, non riesce a mantenere la promessa di un dramma coinvolgente, risultando piuttosto noioso e pretenzioso.
Il film Spider-Man: Lotus ci ricorda perché l’Uomo Ragno è uno degli eroi Marvel più amati. Questo film autoprodotto, realizzato con passione da fan del personaggio e diretto da Gavin J. Konop, offre una visione intima e toccante, molto aderente alle storie a fumetti, di Peter Parker, esplorando le sue paure e la sua umanità.
A differenza dei blockbuster tradizionali, Spider-Man: Lotus mette da parte gli effetti speciali e le battaglie epiche, concentrandosi su temi profondi come il lutto, il senso di colpa e la ricerca di redenzione.
La regia delicata e il ritmo pacato permettono di connettersi davvero con i dilemmi interiori di Peter, rendendolo un eroe vulnerabile e realistico. Tuttavia le scene di lotta e le tipiche acrobazie di Spidey non mancano, e sono soddisfacenti, anche se non numerose.
Nonostante il budget ridotto, il film riesce a far emergere una forte carica emotiva, con attori non professionisti ma comunque validi. Davvero encomiabile poi l’aderenza assoluta alle storie cui è ispirato, senza certi ridicoli adattamenti e le grossolane forzature di gran parte dei film Marvel realizzati di recente.
Spider-Man: Lotus è una sorpresa che conquista, un omaggio commovente all’essenza del personaggio, che supera in qualità e passione molte produzioni ufficiali MCU.
La macchina della realtà (The Difference Engine) di William Gibson e Bruce Sterling, pubblicato nel 1990, è una pietra miliare della narrativa steampunk, che miscela sapientemente storia alternativa e fantascienza.
Ambientato in un XIX secolo distopico, nel quale Charles Babbage ha realmente costruito il suo "motore analitico", il romanzo presenta un mondo in cui la rivoluzione industriale è guidata dalla potenza di calcolo meccanica, creando una società tecnologicamente avanzata e al tempo stesso opprimente.
Uno degli aspetti più affascinanti del libro è la sua capacità di evocare un mondo vivido e plausibile, dove il passato e il futuro si fondono.
Gibson e Sterling riescono a trasportarci in una Londra in cui il progresso scientifico ha trasformato l'economia, la politica e la cultura. Questo mondo, ricco di dettagli, è popolato da personaggi complessi, tra cui Sybil Gerard, una donna dal passato difficile, e Edward Mallory, un uomo di scienza. Ogni personaggio è rappresentativo di un particolare aspetto della società vittoriana, ma con uno slancio visionario che anticipa temi moderni come la sorveglianza di massa e il controllo tecnologico.
La trama è densa e stratificata, con colpi di scena che tengono il lettore incollato fino all'ultima pagina. Ma ciò che rende La macchina della realtà davvero speciale è la sua capacità di fondere la narrativa storica con una speculazione scientifica tanto affascinante quanto inquietante. Il romanzo non è solo un'avventura steampunk; è un'esplorazione delle implicazioni sociali ed economiche della tecnologia, ed è questo che lo distingue dalla maggior parte dei racconti di genere.
Inoltre il lavoro stilistico di Gibson e Sterling è impeccabile. La loro prosa è ricca, precisa e carica di atmosfera, anche se sono ben riconoscibili le parti scritte da ciascun scrittore.
Londra emerge come un personaggio a sé stante, con i suoi fumi industriali, le carrozze che sfrecciano, e l'inquietante presenza delle enormi macchine a vapore. Il senso di alienazione e meraviglia che traspare dalle loro descrizioni fa sì che il lettore si perda piacevolmente nel mondo che hanno creato.
La macchina della realtà è un libro che merita di essere letto non solo dagli appassionati di steampunk, ma da chiunque sia interessato a una narrativa che unisce la speculazione tecnologica a un'immersione storica profonda. È un'opera che ci invita a riflettere sul potere della tecnologia e sul modo in cui essa plasma la nostra società, con una lucidità e un'intuizione che lo rendono ancora estremamente attuale.
Quello di Gibson e Sterling è un romanzo avvincente, intelligente e profetico. Un classico della fantascienza che ha aperto la strada a un intero genere.
Il film Atlas, uscito lo scorso maggio su Netflix, con la sempre procace Jennifer Lopez, qui nelle vesti anche di co-produttrice della pellicola, tenta di fondere fantascienza e azione, ma finisce per essere un prodotto senz'anima, privo di originalità e tensione.
La trama, che ruota intorno a una IA ribelle, è prevedibile e piatta, incapace di offrire spunti innovativi o scene memorabili. I dialoghi suonano sciatti, l'umorismo è datato.
La Lopez non riesce a dare profondità al suo personaggio di scienziata risoluta e con un passato tormentato, perdendosi invece un susseguirsi di cliché e dialoghi scontati.
Atlas cerca di stupire l'incauto spettatore con appariscenti effetti visivi, ma è carente completamente di sostanza.
Insomma, un altro flop per l'ambiziosissima e irriducibile Lopez, dopo gli ultimi, clamorosi insuccessi e le solite peripezie sentimentali.
Taylor Swift rappresenta uno dei fenomeni più emblematici della musica contemporanea, amata da milioni di fan in tutto il mondo e capace di conquistare un successo che genera guadagni colossali.
Tuttavia, dietro l’apparente brillantezza della sua carriera, emergono alcuni limiti artistici e una spiccata capacità di sfruttare meccanismi commerciali che fanno riflettere.
Uno dei principali limiti di Taylor Swift è la prevedibilità della sua musica. Nonostante i suoi tentativi di evolversi, passando dal country degli inizi al pop più commerciale e persino esplorando sonorità indie e alternative, le sue canzoni tendono a seguire schemi ricorrenti: melodie semplici al limite del banale, liriche sentimentali e arrangiamenti che raramente osano sperimentare. Questo rende molte delle sue produzioni un po' piatte e, in alcuni casi, prive di profondità artistica.
Anche se è vero che Taylor ha dimostrato una certa abilità nel songwriting, i suoi testi spesso si concentrano su temi limitati, soprattutto relazioni amorose travagliate e rivalità personali. Ciò rende la sua musica ripetitiva, specialmente per chi cerca complessità o originalità.
Il successo della mediocrità, si potrebbe dire, nell'era della musica plastificata, studiata per piacere a ogni costo. Ma forse è giusto così: ogni generazione ha i suoi modelli di riferimento. Certo, dai mostri sacri Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin e, in anni più recenti, Depeche Mode e Nirvana alla Swift il salto è lungo e forse poco comprensibile, specie per i meno giovani, ma in fondo è il nuovo è che avanza... O no?
Considerato uno dei capolavori dell'horror italiano, La casa dalle finestre che ridono del maestro Pupi Avati (1976) ha conquistato nel tempo uno status di culto tra gli appassionati dell'horror gotico italiano.
La storia si sviluppa intorno a Stefano, un restauratore chiamato in un piccolo borgo per lavorare su un affresco macabro, dietro il quale si cela un inquietante mistero legato al passato del pittore. L'atmosfera angosciosa, i paesaggi decadenti e la tensione sottile che serpeggia per tutta la pellicola rappresentano gli elementi di forza di un film che, per molti, è sinonimo di inquietudine psicologica e terrore sottopelle.
Tuttavia, riguardandolo oggi, il film mostra tutti i segni del tempo. Quello che nel 1976 era un ritmo studiato, teso a creare suspense, può risultare per lo spettatore moderno eccessivamente lento e dilatato. Le lunghe attese, i silenzi carichi di tensione e i dialoghi rarefatti, che avrebbero dovuto intensificare l'atmosfera inquietante, rischiano di diventare estenuanti.
La costruzione della trama, che richiede tempo per rivelarsi, potrebbe non coinvolgere lo stesso tipo di pubblico abituato a un ritmo più serrato e a una narrazione più immediata.
Anche dal punto di vista stilistico, alcune scelte registiche di Avati possono apparire manierate, fin troppo legate ai codici del cinema degli anni '70. Il risultato è un'opera che, pur rimanendo una pietra miliare dell'horror italiano, sembra aver perso parte del suo impatto emotivo, proprio a causa di una lentezza che oggi risulta pesante.
Intendiamoci, La casa dalle finestre che ridono rimane un film da vedere per chi ama il cinema di genere, ma è inevitabile notare che il tempo non è stato clemente con questa pellicola. Quello che una volta era un horror psicologico innovativo, ora potrebbe apparire a molti spettatori come un esercizio di stile un po' datato.
Kaos, serie televisiva britannica prodotta da Netflix e distribuita sulla piattaforma a fine agosto 2024, si propone di reimmaginare la mitologia greca in chiave moderna e volutamente kitsch, ma finisce per perdersi in una narrazione caotica e disorganizzata, volta a stupire (scandalizzare?) lo spettatore.
La trama salta tra personaggi e sottotrame senza una direzione chiara, rendendo difficile seguire il filo conduttore. Le prime puntate in tal senso appaiono più centrate, salvo poi perdersi in una narrazione sfilacciata e non di radio tediosa.
In più, l'eccessiva enfasi su temi woke, spesso inseriti in modo quasi posticcio, soffoca qualsiasi potenziale profondità narrativa, trasformando la serie in un esercizio di moralismo più che in un racconto coinvolgente. Non a caso, la serie, tra le proteste dei suoi estimatori, non è stata rinnovata per una seconda stagione.
Un plauso tuttavia alla buona prova recitativa dei vari attori, con un Jeff Goldblum particolarmente efficace nel ruolo istrionico di Zeus, reso con ironia, svagatezza e un bel po' di follia.
Nel 2016, a 5 anni di distanza dal precedente album So beautiful or so what, Paul Simon, vera e propria leggenda del pop folk, incide un nuovo disco, Stranger to Stranger. Tanti sono gli anni che impiega per realizzare un disco che sprizza energia, passione, divertimento e soprattutto tanta qualità. Non è poco, all’età non più verde dell’artista.
Basta ascoltare il brano che dà il titolo all'album, Stranger to Stranger, una ballata raffinata e di grande eleganza, che conferma certe interessanti somiglianze con Sting (non a caso i due hanno fatto un tour assieme).
A mio modesto parere è il suo disco più bello dopo Graceland: un lavoro all'insegna del suono – con gli strumenti inventati da Harry Partch (il Chromelodeon e la Marimba Eroicae, per esempio – e della ricerca musicale con le amatissime contaminazioni tra World music, pop, folk e sonorità elettroniche.
Il risultato, strepitoso e di grande sostanza, è raggiunto grazie anche al contributo di produttori e arrangiatori d'avanguardia come Roy Halee e Nico Muhly e e di una pletora di musicisti del calibro di Jack DeJohnette e Bobby McFerrin.
A molti artisti, specie in questi tempi di crisi del disco, basterebbe poter vivere di rendita sul glorioso (e lucroso!) passato del periodo folk-pop di Simon & Garfunkel, ma il paffuto Paul non riposa affatto sugli allori, come del resto fa un altro giovincello settantenne, un certo Sir Paul McCartney, che gira ancora il mondo con una band strepitosa e incide dischi nient'affatto di routine.
Già il brano d'apertura, The Werewolf, scandito da potenti percussioni dal suono afro, rende bene lo spirito che pervade l'intero disco. Non a caso, è uno dei brani ai quali ha lavorato il produttore “elettronico” di casa nostra Clap! Clap!, nome d'arte del talentuoso Cristiano Crisci.
Si prosegue in crescendo con Wristband, di nuovo molto ritmato, modernissimo, con basso in grande evidenza e la voce del Nostro a deliziarci come sempre. In a parade stupisce l'ascoltatore con la sua grande verve, una specie di marcetta come suggerisce il titolo, ma in chiave etno, sempre molto ritmata. Proof of Love è una ballata dall'incedere molto particolare, quasi solenne, con inaspettati cori quasi gospel: a dir poco incantevole.
Cool Papa Bell è un brano molto piacevole e fresco, che proprio non diresti composto da un signore che a ottobre soffierà sulla settantacinquesima candelina. A questo punto non possiamo più stupirci dell'energia che pulsa in The Riverbank, mentre veleggiamo purtroppo verso la fine del disco. Disco che si conclude con il brano Insomniac's Lullaby, sorta di commosso omaggio al tempo che fu, una ballata vecchia maniera di grande bellezza e apparente semplicità, quasi un regalo ai fan di Simon & Garfunkel. E qui ci sfugge una lacrimuccia nostalgica…
Non mancano brevi inserti sonori sempre all'insegna del ritmo tra una canzone e l'altra, e anche in questo l'artista rivela la sua voglia inesausta di spiazzare.
Concludo questa recensione con le parole di Paul Simon, che illustrano bene il suo approccio alla musica: “Il suono è l’oggetto di questo album, e ne caratterizza ogni singola canzone. Se la gente lo avvertirà, sarò contento. La giusta canzone al momento giusto può vivere per generazioni: un bel suono, beh, è per sempre”.
Tracklist:
1. The Werewolf 2. Wristband 3. The Clock 4. Street Angel 5. Stranger to Stranger 6. In a Parade 7. Proof of Love 8. In the Garden of Edie 9. The Riverbank 10. Cool Papa Bell 11. Insomniac’s Lullaby
Voto: 5
Aspetti positivi: disco di grande qualità, con suoni e arrangiamenti piacevolmente spiazzanti
Pare che le mitiche audiocassette audio stiano tornando di moda, parallelamente al revival dei dischi in vinile. Molti artisti famosi, da Taylor Swift a Lady Gaga, hanno pubblicato i loro album anche in versione musicassetta.
Cedendo al fascino della nostalgia canaglia, la notizia mi fa piacere, essendo stato per molti anni un grande utilizzatore di cassette, nonostante la loro qualità audio non certo eccelsa. Ma questo offriva la tecnologia di un tempo.
In anni preistorici le registravo dapprima dalle radio private (che una volta i benpensanti chiamavano radio pirate) FM con un indistruttibile radioregistratore Grundig, poi nel corso degli anni con varie piastre di registrazione (Pioneer, Technics, Aiwa con tanto di regolazione fine del bias!).
La mia marca di cassette preferita era TDK, nelle varie versioni, specie la superlativa TDK SA.
Per non parlare dell’avvento del mitico Walkman Sony, mio inseparabile compagno nei primi anni ‘80 e durante il tedioso servizio militare.
Tuttavia confesso di non rimpiangerle granché, come non rimpiango affatto neanche il vinile. Quando è arrivato il CD ho tirato un grosso respiro di sollievo. Niente fruscii, scricchiolii, qualità da vendere.
È vero, oggi con lo streaming dei vari Spotify, Deezer, Apple Music e compagnia cantante, appunto, abbiamo potenzialmente accesso a una discografia sterminata, ma, come dire, allo stesso tempo volatile ed evanescente.
Possedere fisicamente un disco è un’altra cosa, diciamocelo. Posso ascoltare come e quando voglio un determinato album senza dover sottostare ad abbonamenti, richieste snervanti di password, dischi scomparsi perché ritirati dai cataloghi per oscure ragioni di copyright, ecc.
Non è poco, credetemi.
La copertina di "Johnny and Mary", 45 giri di grandissimo successo di Robert Palmer:
mostra l'artista mentre ascolta musica da un Walkman, all'epoca (1980) oggetto di culto
Tempo fa mi sono occupato, sulle pagine del blog magazine Libri e Parole, di quello che da più parti è considerato il racconto perfetto, To Build a Fire, (1902/1908) del grande Jack London.
Conosciuto, a seconda delle edizioni, sotto vari titoli, come Preparare un fuoco, Allestire un fuoco o, più semplicemente, Accendere un fuoco, rappresenta per certi versi la quintessenza della visione della vita dello scrittore, dominata da un vitalismo esasperato, in perenne lotta con una Natura spietata ma infinitamente più saggia dell'uomo.
La forma è scintillante, affilata come un rasoio. I periodi, tipici di London, sono fulminanti. La storia narrata è un concentrato d'azione e psicologia, serrata come un thriller e mai banale o noiosa.
Segnalo peraltro che ne esistono alcune efficaci trasposizioni per immagini. Tra queste merita senz'altro di essere ricordata quella realizzata a fine anni '60 da David Cobham, che si pregia della voce narrante di Orson Welles.
Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese si presentava come un’opera ambiziosa, pronta a esplorare una tragica pagina della storia americana. Purtroppo il risultato finale si rivela essere un’opera eccessivamente lunga e narrativamente dispersiva, incapace di mantenere l’attenzione dello spettatore per le sue quasi quattro ore di durata. A dire il vero già dalle prime scene lo spettatore arranca, nel tentativo di farsi catturare dalla trama.
Il film cerca di trattare temi importanti come il razzismo e la corruzione, ma lo fa in modo freddo e distaccato, senza mai davvero scavare a fondo nei sentimenti dei personaggi o nei meccanismi sociali e culturali del tempo. La sceneggiatura, basata sul libro di David Grann, risulta spesso frammentata, alternando momenti di grande impatto a lunghe sequenze lente e prive di mordente. Scorsese, solitamente maestro nel gestire il ritmo, qui sembra perdersi, dilatando all'inverosimile scene che avrebbero potuto essere risolte con maggiore sintesi ed efficacia.
Leonardo DiCaprio e Robert De Niro offrono interpretazioni che, sebbene solide, sembrano già viste. DiCaprio, in particolare, ripropone lo stesso tipo di personaggio tormentato e ambiguo che ha interpretato più volte sotto la direzione di Scorsese, senza portare nulla di nuovo al suo repertorio. La loro dinamica appare scontata, priva di quella tensione emotiva che ci si aspetterebbe da due attori di questo calibro.
Inoltre, nonostante la presenza di Lily Gladstone, che regala forse la performance più sincera del film, il ruolo dei nativi americani sembra marginalizzato. In una storia che dovrebbe parlare di oppressione e ingiustizia, i personaggi indigeni rimangono figure passive, quasi degli spettatori nel loro stesso dramma, e ciò risulta frustrante.
La fotografia è impeccabile e il film è sicuramente un’opera visivamente affascinante, ma la bellezza estetica non è sufficiente a compensare una narrazione che si trascina, priva della tensione necessaria per mantenere viva l’attenzione.
Killers of the Flower Moon sembra perdersi nella sua stessa ambizione, offrendo un’opera che, pur con sprazzi di genialità, risulta alla fine troppo sterile e prolissa per lasciare davvero il segno.
Pleasure, coraggioso film d'esordio diNinja Thyberg, tenta di offrire uno sguardo crudo e realistico sul mondo della pornografia, ma si perde in un'estetizzazione dello squallore e della sopraffazione, fisica e psicologica, che appare più voyeristica che critica.
Il film, con piglio pseudo documentaristico, mostra con abbondanza scene disturbanti quando non scioccanti, ma manca di una reale introspezione sui personaggi o sul sistema che vuole denunciare.
La protagonista è più un pretesto per mostrare situazioni estreme che una figura tridimensionale con cui empatizzare.
Alla fine, il film risulta sterile e superficiale, incapace di andare oltre la sua provocazione iniziale. Da evitare, pena ripetuti attacchi di narcolessia.
L'ammetto: quando ho iniziato a guardare Agatha All Along, l'ultima serie televisiva MCU apparsa sulla piattaforma Disney+, la mia speranza era quella di immergermi in un prodotto avvincente, capace di proseguire l'interessante arco narrativo introdotto in WandaVision.
Purtroppo quella speranza è stata infranta quasi subito. La serie è un pasticcio infantile che manca di profondità, con una trama che sembra scritta per un pubblico che non ha mai avuto a che fare con storie ben costruite.
La trama, se così si può chiamare, si snoda tra colpi di scena prevedibili e cliché che non riescono a suscitare il minimo interesse. Sembra che gli autori abbiano deciso di abbassare completamente l'asticella dell'intelligenza del pubblico. Ogni svolta narrativa è talmente prevedibile che il senso di mistero, che avrebbe dovuto essere il cuore della serie, evapora subito, lasciando solo noia.
A peggiorare la situazione, la recitazione è al di sotto di qualsiasi standard accettabile. Kathryn Hahn, che in WandaVision era riuscita a creare un personaggio intrigante e ambiguo, qui appare stanca e priva di direzione. Gli attori di supporto non sono da meno: ogni battuta è recitata con un tono forzato, quasi come se fossero costretti a interpretare personaggi che non sentono affatto propri.
E poi ci sono i personaggi stessi: antipatici, mal scritti e privi di qualsiasi tipo di evoluzione o complessità. Agatha All Along non fa altro che riportare stereotipi e caricature che non risultano né divertenti né interessanti. Non c'è un solo personaggio con cui si riesca a empatizzare, rendendo ogni scena un fardello da sopportare piuttosto che un piacere da godere.
Infine, laproduzione sciatta rende il tutto ancora più difficile da digerire. La scenografia sembra realizzata al risparmio, con effetti speciali di bassa qualità che nemmeno una serie di minore importanza avrebbe giustificato.
Anche la regia sembra priva di qualunque visione artistica o creativa. Ogni scena è piatta e monotona, senza alcun senso del ritmo o della costruzione visiva.
In definitiva, Agatha All Along è una perdita di tempo. Un prodotto che sembra esistere solo per monetizzare il successo di WandaVision, ma che non riesce minimamente a replicarne la novità e la... magia (!).
Consiglio di evitare questa serie se si cerca un minimo di qualità.
Lei (Her) di Spike Jonze è uno di quei film che restano impressi per la loro capacità di raccontare temi universali con una delicatezza sorprendente. Ambientato in un futuro non troppo lontano, il film segue la storia di Theodore interpretato magnificamente da Joaquin Phoenix, un uomo solo e introverso che si innamora di Samantha, un'intelligenza artificiale avanzata, doppiata in originale in modo magnetico da Scarlett Johansson.
Theodore è un uomo sensibile e tormentato, che lavora come scrittore di lettere personali per altre persone, ma fatica a gestire la propria vita emotiva dopo un doloroso divorzio. Joaquin Phoenix, che ha già dato prova del suo straordinario talento in interpretazioni intense come quella in Joker (2019), qui offre un ritratto intimo e vulnerabile di un uomo che cerca di dare un senso alla sua esistenza in un mondo alienante. Diversamente dal violento e disturbato Arthur Fleck in Joker, il personaggio di Theodore è dolce, introspettivo e malinconico, ma le sue difficoltà nel connettersi con il mondo reale rivelano un altro tipo di solitudine, altrettanto profonda.
Uno degli aspetti più riusciti del film è la capacità di Jonze di rendere credibile e commovente una relazione tra un essere umano e un'entità immateriale. Samantha, pur non avendo un corpo, riesce a incarnare la complessità emotiva che Theodore cerca disperatamente. Il film esplora in modo delicato e profondo la natura dell'amore e della solitudine in una società sempre più tecnologica e alienante, dove il contatto umano è sostituito dall'interazione virtuale.
Visivamente, Her è straordinario: la fotografia calda e soffusa di Hoyte van Hoytema crea un’atmosfera intima e malinconica che accompagna alla perfezione lo stato d’animo di Theodore. La scenografia futuristica ma al contempo familiare ci trasporta in un mondo credibile, dove il progresso tecnologico non è distopico, ma anzi elegantemente integrato nella quotidianità.
Tuttavia, il film solleva anche domande profonde: fino a che punto l'intelligenza artificiale può soddisfare i bisogni emotivi umani? Her suggerisce che, sebbene le connessioni virtuali possano sembrare appaganti, esse restano limitate rispetto alla complessità e all'imprevedibilità delle relazioni umane. La crescita di Samantha come entità senziente diventa una metafora del divario che, inevitabilmente, si crea tra un uomo e una tecnologia che evolve più velocemente delle sue emozioni.
Il film ha il coraggio di esplorare anche la vulnerabilità maschile, un tema spesso trascurato nel cinema. Phoenix, qui molto diverso dal cinico e violento Joker, mostra un lato più fragile e romantico, dimostrando una versatilità eccezionale. La dinamica tra Theodore e Samantha porta a un finale dolceamaro, che invita lo spettatore a riflettere sulla natura dell'amore e su cosa significhi realmente "essere insieme" a qualcuno.
Una piccola nota negativa riguarda il doppiaggio italiano. Nella versione originale, la voce di Scarlett Johansson è calda e avvolgente, contribuendo a rendere la presenza di Samantha estremamente credibile. Tuttavia, in italiano, la scelta di affidare la voce a Micaela Ramazzotti risulta meno efficace. La sua dizione non sempre perfetta e un tono a tratti forzato rendono meno convincente la rappresentazione dell'intelligenza artificiale, riducendo l'impatto emotivo di alcune scene chiave.
In conclusione, Her è una riflessione poetica e malinconica sul futuro delle relazioni umane. Con una regia impeccabile e interpretazioni emotivamente intense, Jonze ci invita a considerare il significato dell'intimità nell'era digitale, facendoci chiedere quanto siamo davvero connessi, non solo con gli altri, ma con noi stessi.
Ottobre è il mese perfetto per immergersi nella lettura, con le giornate che si accorciano e l'atmosfera autunnale che invita a ritagliarsi del tempo per sé, magari con una tazza di tè e un buon libro.
In questa nuova puntata della consueta rubrica dei libri consigliati, voglio consigliarvi alcuni titoli che ho scelto appositamente per accompagnarvi in questo periodo dell'anno.
Dai romanzi avvincenti ai saggi più stimolanti, troverete proposte per tutti i gusti, ideali per affrontare le giornate fresche e riscoprire il piacere della lettura. Buona scoperta!