È sotto gli occhi di tutti: negli ultimi anni l’aggressività verbale sui social è cresciuta in modo esponenziale. Insulti, provocazioni, battute al vetriolo e flame sembrano essere diventati la norma, non più l’eccezione. Discussioni che un tempo sarebbero state civili, o almeno contenute, oggi degenerano in risse digitali nel giro di pochi commenti.
Ma non è solo una questione culturale o sociale. Dietro questo aumento della rissosità si nasconde una logica ben più cinica: quella del profitto. I social network, che campano e anzi prosperano grazie alla pubblicità, guadagnano tanto più quanto più tempo passiamo sulle loro piattaforme. E nulla tiene incollati allo schermo come uno scontro, una lite, un’escalation di indignazione.
L’algoritmo lo sa. E favorisce i contenuti divisivi, quelli che suscitano reazioni forti, che polarizzano. Perché una persona che si infuria, che si sente attaccata, che vuole ribattere, resta online. E mentre litiga, guarda pubblicità. Più rabbia, più clic. Più clic, più soldi.
In questo meccanismo perverso, le piattaforme non hanno alcun interesse reale a disinnescare il conflitto. Al contrario: lo alimentano, lo premiano. A farne le spese siamo noi utenti, sempre più esposti a un clima di tossicità e stress, e la qualità stessa del dibattito pubblico, che si inaridisce in slogan e insulti.
Forse è il momento di chiederci: vogliamo davvero farci usare in questo modo?
