Negli ultimi anni, parlare di bibliodiversità è diventato quasi un imperativo per editori, librai, festival letterari. I cataloghi si arricchiscono – almeno in apparenza – di voci dal Sud globale, di autori afrodiscendenti, di scritture queer, di storie che attraversano i confini della lingua, del genere, della geografia. Una pluralità necessaria, sacrosanta. Ma qualcosa non torna.
Come sottolinea giustamente un articolo pubblicato su Libri e Parole, troppo spesso questi titoli vengono esposti con zelo, ma restano di fatto isolati, marginali, poco letti. È il paradosso della rappresentanza simbolica: i libri ci sono, ma non entrano davvero nel dibattito pubblico, né trovano spazio nelle classifiche o nei circoli di lettura. Rimangono sullo sfondo, quasi a segnalare che sì, anche questo esiste, ma senza cambiare nulla.
Eppure la bibliodiversità non è solo una questione di vetrine o di percentuali nei cataloghi. È una sfida culturale più profonda: significa mettere in discussione il canone dominante, aprirsi al rischio dell’alterità, lasciarsi disturbare da ciò che non conosciamo. E soprattutto: leggere, davvero. Leggere per ascoltare, non solo per esibire.
Finché non colmeremo questa distanza tra ciò che pubblichiamo e ciò che leggiamo, tra ciò che mostriamo e ciò che ci interroga, la bibliodiversità resterà una promessa non mantenuta.
L'articolo completo: Bibliodiversità di facciata?