lunedì 4 novembre 2024

Il ritorno trionfale dei Cure: Songs of a Lost World

This is the end of every song that we sing

The fire burned out to ash and the stars grown dim with tears

Cold and afraid, the ghosts of all that we've been

We toast with bitter dregs, to our emptiness

Bentornati, Cure! Dopo ben 16 anni di attesa, Songs of a Lost World dimostra che Robert Smith e compagni non hanno intenzione di cambiare per adeguarsi alle mode. Anzi, la loro musica continua a risuonare con quella forza oscura e rabbiosa che li ha sempre contraddistinti. 

Gli arrangiamenti, potenti e orgogliosamente “fuori moda”, sono un atto di fedeltà a un sound inconfondibile e immortale. I brani sono lunghi, spesso di 8 minuti, con introduzioni strumentali che suonano come uno schiaffo al malcostume imperante delle canzonette usa e getta con ritornelli a pochi secondi dall'inizio della canzone. 

Già il primo brano, Alone, che ha anticipato a fine settembre l’uscita dell’album, con una lunga intro strumentale dal suono cupo e dalla melodia malinconica, conferma la forma smagliante della band, nata a fine anni ‘70, in piena era post-punk.

Il disco si presenta come un manifesto, una dichiarazione di stile (ma anche di contenuti) che sembra dire: “Siamo tornati, e non ci piegheremo”. È un album a tratti di rock sinfonico, solenne e potente. 

Le chitarre, grazie anche alla maestria di Reeves Gabrels (chitarrista per molti anni con David Bowie) graffiano con una profondità tagliente, mentre la batteria martella con precisione e intensità, donando al suono una qualità senza compromessi.

Per i fan di vecchia data e per chi cerca soprattutto autenticità, Songs of a Lost World è un regalo prezioso. Bentornato Robert Smith, bentornati Cure!



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