Il 30 aprile 1975 segna un anniversario doloroso e significativo: la fine della guerra del Vietnam. In questa data i carri armati nordvietnamiti entrarono a Saigon, ponendo fine a un conflitto lungo, lacerante, tragico. Le immagini dell’evacuazione disperata dall’ambasciata americana, gli elicotteri sul tetto, i civili abbandonati, restano impresse nella memoria collettiva come simbolo del fallimento e dell’orrore.
Fu il presidente Richard Nixon a ordinare, nel 1973, il ritiro delle truppe americane, in seguito agli accordi di pace di Parigi. Tuttavia, il ritiro non portò alla pace, ma solo a un tragico epilogo annunciato: due anni dopo, il Vietnam del Sud cadde e l'intero paese passò sotto il controllo comunista.
La guerra del Vietnam ha lasciato un’impronta profonda nella coscienza americana e mondiale: oltre 58.000 soldati statunitensi uccisi, milioni di vittime vietnamite, ferite psicologiche e morali incancellabili, e un interrogativo ancora oggi irrisolto sul senso di quella guerra.
Negli Stati Uniti, quel conflitto segnò una frattura epocale. Nacque e crebbe un vasto movimento pacifista, che attraversò il paese e il mondo occidentale, portando in piazza studenti, intellettuali, artisti, veterani. Il Vietnam fu anche una guerra mediatica: le immagini trasmesse ogni giorno in televisione cambiarono per sempre il rapporto tra opinione pubblica e potere. La fiducia nel governo crollò, dando inizio a una lunga stagione di disincanto e critica verso le istituzioni.
Anche la cultura ne fu trasformata: musica, cinema e letteratura affrontarono il trauma bellico con opere che ancora oggi ci parlano, da Apocalypse Now a Nato il quattro luglio, da Bob Dylan a Bruce Springsteen, da Tim O'Brien a Oliver Stone.
Ricordare oggi la fine del conflitto significa anche onorare le vittime, civili e militari, di ogni parte, e riflettere sulle responsabilità della politica, sulla voce della società civile e sui limiti tragici dell’interventismo armato.