sabato 13 dicembre 2025

L’America è salva: hanno sconfitto il temibile Calibri!

Finalmente una notizia rassicurante dagli Stati Uniti: il problema dei problemi è stato individuato. No, non l’economia, non le guerre, non il clima. Il vero nemico della civiltà occidentale si chiamava Calibri. Un font.

Dopo anni di resistenza silenziosa, l’amministrazione Trump, per mano dell'ineffabile Segretario di Stato Marco Rubio, ha avuto il coraggio che mancava: estirpare il carattere tipografico sospettato di essere woke, troppo moderno, leggibile e – orrore degli orrori – vergognosamente attento verso chi fa fatica a leggere. Un attentato all’ordine naturale delle cose. Come osi aiutare le persone, Calibri?


Per fortuna torna lui, il salvatore: Times New Roman, austero, compassato, con quell’aria da verbale notarile del 1934. Il font perfetto per un’idea di Stato che considera il passato non una lezione, ma un rifugio. Altro che progressismo: qui si restaurano le grazie, si lucidano le serif, si raddrizza la morale a colpi di impaginazione.


È la nuova frontiera della politica trumpiana: la guerra culturale combattuta a corpo a corpo con Word. Oggi si caccia un font woke, domani magari si abolirà l’interlinea troppo morbida o si metteranno al bando i margini generosi, notoriamente sovversivi. Il messaggio è chiarissimo: se non sai governare il mondo, almeno governa i caratteri. 


Se la realtà è complessa, semplifichiamola in dodici punti, giustificati, con un bel ritorno all’ordine tipografico. E così, mentre il pianeta vacilla, Washington si congratula con se stessa: missione compiuta. Il Times New Roman è tornato. L’America è salva.

MAXXI: quando manca una visione

Frequento da sempre mostre e musei, e assistere all’evoluzione, anzi involuzione recente del MAXXI mi lascia con un senso di delusione profonda. La direzione attuale sembra aver smarrito una visione coerente e ambiziosa, sacrificando il valore di un’istituzione nata con grandi promesse. 

Le scelte espositive, dalle mostre definite “sperimentali” fino a quelle ridotte a nomi altisonanti senza una chiara identità, producono un effetto straniante: troppo spesso lo spettatore ha la sensazione di un museo “che cerca di colpire” senza costruire un percorso culturale serio, organico e duraturo.


La collezione permanente — da sempre il cuore di un museo e ciò che dovrebbe garantire continuità e identità — pare nascosta, trascurata, relegata a un secondo piano rispetto a operazioni occasionali. Il risultato è che viene a mancare quel senso di fondo che dovrebbe distinguere un’istituzione seria da un semplice contenitore di eventi.


I numeri non mentono: secondo un report recente le entrate del museo sono precipitate; i ricavi dalle vendite dei biglietti sono calati drasticamente, e anche sponsorizzazioni e collaborazioni risultano in forte contrazione. Si parla apertamente di “assenza di visione strategica”. Questo si traduce nella drastica riduzione delle presenze, ma anche — ancora peggio — in un calo del gradimento.


Così facendo, il MAXXI, invece di crescere e diventare un punto di riferimento per l’arte contemporanea a Roma, si sta lentamente spopolando. Un museo contemporaneo non può vivere di lampi: ha bisogno di coerenza, cura delle collezioni, di una identità chiara, non di show-case fugaci e di scelte occasionali finalizzate a fare rumore. È ora di tornare seri: valorizzare la collezione permanente, costruire una narrativa strutturata, puntare su coerenza e qualità, non sul facile sensazionalismo.




venerdì 12 dicembre 2025

Wish You Were Here 50, non una semplice riedizione

Non ho mai amato la proliferazione di riedizioni degli album storici: troppo spesso sono operazioni cosmetiche, più commerciali che musicali. Wish You Were Here 50 dei Pink Floyd, però, fa eccezione. Qui la ricorrenza non è un pretesto: l’album del 1975 torna in una forma che rispetta il passato ma aggiunge elementi realmente significativi, tali da giustificare questa nuova veste.

Oltre alla qualità sonora migliorata — più limpida nelle parti più rarefatte e più corposa nei crescendo strumentali — l’edizione introduce alcune novità che arricchiscono l’esperienza d’ascolto, senza snaturarla. Il mix aggiornato mette in risalto dettagli prima nascosti: le microtexture elettroniche di Wright, i riverberi della chitarra di Gilmour, persino certe sfumature percussive di Mason che nelle edizioni precedenti restavano sullo sfondo. 

Ma c’è di più. L’edizione include anche una serie di materiali contestuali che aiutano a riascoltare Wish You Were Here con orecchie nuove. I demo preliminari e le sessioni di studio selezionate rivelano il percorso creativo della band: si percepisce il lavoro di rielaborazione, le variazioni minime che hanno portato alla forma definitiva dei brani, la costruzione graduale delle due sezioni di Shine On You Crazy Diamond. A ciò si aggiungono alcune outtake e versioni alternative che, pur non rivoluzionarie, illuminano lati nascosti dell’album.

Completano l’operazione un booklet ampliato con fotografie d’epoca e una serie di note critiche nuove, più attente al contesto storico e al legame affettivo con Syd Barrett. Non si tratta quindi del classico box traboccante di memorabilia inutili, ma di un percorso curato che invita a riascoltare un capolavoro con maggiore consapevolezza.

In questo senso Wish You Were Here 50 non è soltanto una riedizione: è una riscoperta. Un modo per ritrovare un album che, mezzo secolo dopo, continua a parlare con una chiarezza che commuove.




L'uomo più pericoloso del mondo

C’è un dato che la comunità internazionale fatica ormai a ignorare: Donald Trump non è soltanto un presidente imprevedibile. È, molto più semplicemente, un pericolo globale. La sua maldestra presenza costante al centro della scena sta incrinando gli equilibri internazionali, alimentando instabilità, normalizzando il ricatto politico e incoraggiando i peggiori impulsi autoritari in ogni angolo del pianeta.

Trump non è mai stato un uomo di Stato. È arrivato alla politica trascinandosi dietro un passato che definire opaco è un eufemismo: una lunga scia di bancarotte e imprese fallite spacciate per successi, accuse di truffa culminate in condanne civili come nel caso della “Trump University”, e un celebre giudizio del tribunale nello Stato di New York che lo ha ritenuto responsabile di violenza sessuale su E. Jean Carroll. A ciò si aggiungono decenni di comportamenti discutibili, relazioni quanto meno imbarazzanti e quell’ostentata volgarità che ha sempre accompagnato la sua immagine pubblica.

Eppure il punto non è nemmeno questo. Non è tanto l’uomo — con il suo passato torbido e i suoi vizi esibiti — quanto il ruolo che oggi esercita. Non è “l’uomo più potente del mondo”, formula che ormai dice poco. È piuttosto l’uomo più pericoloso del mondo: istintivo, rancoroso, guidato dall’ego più che dalla ragione, circondato da adulatori invece che da consiglieri. Uno che agisce come se la complessità del pianeta fosse un gioco di società e la diplomazia una puntata del suo vecchio reality.

Il problema è che questo gioco ha conseguenze reali. Sulle alleanze internazionali che vacillano. Sulla fiducia tra Stati che si sgretola. Sulla sicurezza collettiva che si assottiglia ogni giorno di più. Il suo disprezzo per l’Europa, la sua fascinazione per i leader autoritari, la sua incapacità di distinguere la politica dalla vendetta personale: tutto questo sta erodendo, pezzo dopo pezzo, l’ordine mondiale costruito negli ultimi settant’anni.

La domanda che rimbalza da una capitale all’altra è sempre la stessa: quanto potrà ancora durare? E soprattutto: quanto potrà ancora danneggiare? Perché il timore, sempre più diffuso, è che non siamo davanti a un semplice presidente mediocre, ma a un detonatore ambulante. Uno che, nel suo stato mentale sempre più instabile e ossessivo, può incendiare interi scenari internazionali nel giro di un tweet.

E forse è proprio questa la nostra tragedia: il mondo non è mai stato così interconnesso, fragile, vulnerabile. E mai, davvero mai, ha dovuto fare i conti con un uomo tanto imprevedibile quanto pericoloso seduto su una tale quantità di leve del potere.

giovedì 11 dicembre 2025

La mostra di Elisabetta Catalano al MAXXI

Insoddisfacente. Non c’è altra parola per definire Elisabetta Catalano. Obiettivo sugli artisti, la mostra su Elisabetta Catalano al MAXXI di Roma. Ci si aspetterebbe un percorso ricco, un approfondimento sullo sguardo fotografico di una figura che ha attraversato decenni di arte e cultura italiana; invece ci si trova davanti a una manciata di vecchie fotografie recuperate dai cassetti e appese come riempitivo museale, precedute da un video che sembra messo lì soltanto per giustificare il prezzo del biglietto.

La sensazione è quella di una mostra fatta per dovere, non per intenzione: poche immagini, nemmeno particolarmente valorizzate, ripetitive nella loro iconografia, con note esplicative fumose. Una retrospettiva che non retrospetta nulla, un omaggio che non omaggia nessuno, un’operazione museale sbrigativa, svogliata, debole.


Se l’obiettivo era ricordare una grande fotografa, si è ottenuto il contrario: una mostra scarna, povera, che svuota piuttosto che aggiungere senso, e che lascia il visitatore con l’amara sensazione di aver assistito non a un tributo, ma a un pretesto. Un’occasione mancata, e nemmeno piccola.






L'uomo di neve

L’uomo di neve (2017) è un thriller cupo e glaciale che punta tutto sull’atmosfera nordica e sulla forza del suo protagonista. 

Michael Fassbender, ancora una volta, conferma la sua statura attoriale con un’interpretazione intensa e tormentata: il suo detective Harry Hole è un uomo ferito, svuotato, ma ancora testardamente aggrappato al proprio lavoro. La sua presenza scenica è ciò che dà solidità al film, soprattutto quando la narrazione sembra sfilacciarsi.



È proprio la sceneggiatura il punto debole dell’opera: pur partendo da un romanzo strutturato e ricco di colpi di scenail film sembra perdersi tra linee narrative che si intrecciano senza mai trovare un vero equilibrio. Alcuni personaggi appaiono e scompaiono con poca motivazione, e la progressione del mistero risulta discontinua, lasciando una certa sensazione di confusione.


Nonostante ciò, L’uomo di neve non è privo di fascino. Le ambientazioni gelide, il ritmo comunque serrato e la fotografia di grande effetto riescono a creare momenti di autentica tensione. È un film che intrattiene e cattura l’occhio, pur lasciando un po’ di amarezza per ciò che sarebbe potuto essere con una sceneggiatura più coesa.


Ne consiglio la visione soprattutto a chi ama i noir nordici e a chi non vuole perdersi un’altra solida interpretazione di Fassbender. Segnalo anche che nella pellicola compare anche il compianto Val Kilmer, qui in una notevole interpretazione, crepuscolare e sofferta.



mercoledì 10 dicembre 2025

Perché Trump ammira Putin e disprezza l’Europa?

Perché Trump condivide la visione imperialista di Putin e odia l’Europa? La risposta, purtroppo, è meno complicata di quanto si creda: in fondo, è questione di affinità elettiva. 

Quando uno guarda il potere come un giocattolo personale, non può che ammirare chi quel giocattolo se lo tiene stretto, costi quel che costi. Putin governa come se la Russia fosse un enorme ranch privato; Trump sogna di fare lo stesso con gli Stati Uniti, con l’unica differenza che, non potendosi incoronare zar, punta a demolire ogni regola e istituzione che glielo impedisca.


L’Europa, poi, è il nemico perfetto: fragile ma non sottomessa, imperfetta ma ancora dipendente dall’idea — scandalosa e intollerabile per certi ego — che i diritti valgano più della forza bruta. Un luogo dove le leggi esistono per limitare i capricci dei potenti, non per proteggerli. E questo, per chi vive nella convinzione che la democrazia sia un ostacolo da aggirare, è irritante quanto un buffet senza ketchup.


In Putin Trump vede un modello: l’uomo solo al comando, circondato da cortigiani; il patriottismo come anestetico di massa; la propaganda come ossigeno; il dissenso come malattia da estirpare. E in fondo, chi altro promette un mondo così semplice? L’Europa, con le sue discussioni, i suoi compromessi, i suoi parlamenti che trattano per mesi: roba insopportabile per chi vuole decidere tutto con un tweet e un capriccio.


Così, l’imperialismo di Putin diventa un manifesto dell’autorità pura, senza mediazioni. L’odio verso l’Europa, una scorciatoia narrativa: “voi pensate, noi agiamo”. E il risultato è un abbraccio sempre più stretto tra due visioni del potere: una retrograda, l’altra rancorosa, entrambe unite dal sogno di demolire ciò che rimane di un equilibrio faticosamente costruito.


E noi, da questa parte dell’Atlantico, non possiamo che assistere. Con l’amara consapevolezza che il declino a volte si applaude, si vota, si urla come uno slogan. E che il futuro, se lo lasciamo agli uomini forti, rischia di assomigliare terribilmente al loro passato.

L’America è salva: hanno sconfitto il temibile Calibri!

Finalmente una notizia rassicurante dagli Stati Uniti: il problema dei problemi è stato individuato. No, non l’economia, non le guerre, non ...